28.5.13

La Chiesa nell'anabattismo

A ricordo di Lidia Gastaldi

L'ECCLESIOLOGIA ANABATTISTA
di

Ugo Gastaldi
 

Parte seconda  

LA COMUNITÀ: l RAPPORTI INTERNI


 

 1. Comunione della Parola 

Praticamente quanti si riconoscono e si accettano come fratelli in Cristo costituiscono, secondo gli anabattisti, la chiesa e la realizzano in quella sua espressione concreta e visibile che è la comunità locale. Lo strumento della comunione e della comunicazione tra i fratelli è la Parola di Dio. La Scrittura è il punto di riferimento costante di quanto si dice e si decide nella comunità. La comunità è quindi innanzitutto un gruppo di credenti che si riunisce regolarmente allo scopo di ascoltare e studiare la Parola di Dio per la reciproca edificazione ed esortazione. Concepita la vita cristiana come « discepolato », al centro della vita comunitaria è il Cristo maestro, con la sua parola ed il suo esempio. L'anabattista, più di ogni altro protestante, ha una seria ed organica padronanza degli insegnamenti di Gesù Cristo e degli apostoli, perché la vita comunitaria lo impegna personalmente e non gli consente di delegare ad altri il giudizio e la decisione. 

Sarebbe inesatto dire che nella comunità anabattista la predicazione si riduca ad uno studio biblico, ma è indubbio che essa si subordina a quello che è lo scopo dichiarato di ogni riunione: cercare e conoscere la volontà di Dio. Fa una certa impressione vedere negli scritti degli anabattisti esplicitamente enunciato questo scopo primario della comunità. In uno dei più antichi testi del movimento, l' Ordnung der Gemein attribuita al martire Hans Schlaffer († 1528) si legge: «Articolo primo: ... quando i fratelli si riuniscono essi devono chiedere a Dio che Egli riveli loro per grazia la sua divina volontà e li aiuti a conoscerla ... ». 

La garanzia fondamentale di questa conoscenza è nella retta interpretazione della Parola di Dio.

Quella del «profeta» mosso dallo Spirito Santo, di fronte a cui la comunità rinuncia alle sue prerogative e si fa gregge, è in realtà una figura marginale e degenere dell'anabattismo, sostanzialmente estranea alla sua più genuina essenza. Nella normale comunità anabattista l'interpretazione della Parola di Dio non viene lasciata all’estro paracletico degli ispirati, come non viene affidata ad un corpo di esperti, qualificati da un titolo rilasciato da una facoltà teologica.

 Il locus  dell'autorità della Scrittura è nella stessa comunità riunita, e questo è senza dubbio un altro dei tratti più originali dell'esperienza comunitaria anabattista. nella ricerca in comune della verità e della volontà di Dio, la Parola acquista così vita e movimento, diventa la risposta dello Spirito alla domanda dei credenti e coinvolge l'intera fratellanza. Questo genere di ermeneutica - quando è effettivamente praticata e non semplicemente teorizzata - conferisce un carattere permanente ed operante al «libero esame» luterano e offre un'occasione di concreta esperienza al principio del sacerdozio universale dei credenti. V'è nelle testimonianze anabattiste una precisa consapevolezza di questo carattere peculiare del loro modo di riunirsi. In una Gemeindeordnung redatta da Leupold Scharnschlager si leggono queste parole: «All'uno può seguire un altro nel parlare, secondo il modo in cui riceve qualche cosa, come Paolo insegna (I Cor. 14), e così esercitare i suoi doni per il miglioramento dei membri della comunità, in modo che la nostra comunione non sia la stessa della chiesa falsamente celebrata, ove soltanto uno può parlare e nessun altro ». 
 
2. Comunità carismatica 

Questa «comunione della Parola» ha tuttavia un presupposto che giustifica e spiega questa ed ogni altra essenziale caratteristica della comunità anabattista: una profonda fede nell'azione dello Spirito Santo in mezzo alla fratellanza credente ed orante. 

Come è lo Spirito che riunisce i credenti nella chiesa di Cristo, così è lo Spirito che le dà vita, la sostiene e la regge. E lo Spirito Santo di cui gli anabattisti parlano - salvo qualche eccezione - è quello inconfondibile del Nuovo Testamento: è cioè lo Spirito di verità, il consigliere, il confortatore, il rivelatore della volontà di Dio, la presenza della sua potenza del suo amore. Lo Spirito Santo è soprattutto colui che distribuisce liberamente i suoi doni o carismi ai singoli fratelli perché l'intera fratellanza se ne valga e ne goda. Il rispetto della libertà dello Spirito è difatti la giustificazione e la garanzia della libertà e dell'eguaglianza dei credenti nell'ambito della comunità.   

La comunità anabattista è quindi essenzialmente una comunità carismatica. Gli stessi ministeri che la comunità affida ad alcuni suoi membri si fondano sul riconoscimento del dono. Vi sono difatti anche tra gli anabattisti delle categorie di ministri, o meglio servitori (la parola più costantemente usata è Diener), come i predicatori, i diaconi e gli anziani, ma si tratta di incarichi costantemente subordinati alla scelta ed al beneplacito della comunità, che non abdica mai alla sua libertà ed alla sua autorità. 

Elementi profetici e mistici si equilibrano in questo genere di esperienza spirituale che normalmente è controllata e disciplinata dal continuo riferimento alla Sacra Scrittura e dall'esercizio comunitario del ministerio della Parola. Il rischio della presunzione dello Spirito Santo ed i pericoli di un ispirazionismo che fa credito alle rivelazioni personali o collettive (ai sogni, alle visioni, ai segni, alle teofanie ed agli impulsi emotivi) sono avvertiti per tempo da parte delle figure più rappresentative del movimento e trovano un efficace argine nel principio che la testimonianza della fratellanza deve essere unitaria e concorde e quindi condizionata dal consensus comunitario. Ben di rado questo principio venne accantonato o sacrificato alle pretese di qualche leader prestigioso. Persino una personalità esuberante com'era Hans Hut dovette metter la sordina al profetismo escatologico che venava la sua predicazione, inchinandosi dinnanzi all'autorità della comunità dei fratelli di Augusta che gli aveva espresso il suo dissenso.   

3. Comunione dei beni 

L'intenso significato che assumono i concetti di fratellanza e di comunione trova la sua espressione in un'altra delle caratteristiche della comunità anabattista: la comunanza o comunione dei beni ( Gütergemeinschaft). Secondo gli anabattisti il credente, in quanto è un membro del corpo di Cristo, vi partecipa e lo serve non solo con i doni dello Spirito ma anche con i beni che Dio gli concede. L'epistola di Giacomo gode di un grande credito tra i « fratelli» ed essa insegna che la responsabilità che ciascuno ha degli altri non può limitarsi al piano puramente spirituale, ma deve estendersi anche alle condizioni materiali di vita. Non si ha quindi vera comunione fraterna se anche i beni non vengono messi in comune. È questo un principio costante di vita comunitaria che si ritrova in tutti i gruppi del movimento, anche se non viene sempre inteso ed applicato nello stesso modo.   

Nel suo aspetto più generale e più largo la comunione dei beni era intesa come l'espressione di un concreto amor fraterno nei riguardi di quei membri della comunità che si trovavano nel bisogno (Liebeskommunismus), indipendentemente dalla partecipazione agli oneri che l'attività della comunità comportava. Non v'era alcuna costrizione o regolamentazione nel dare. Le comunità dei fratelli hutteriti sotto questo aspetto costituiscono un'eccezione, in quanto impongono una rinuncia totale alla proprietà privata. La giustificazione teologica della comunità dei beni veniva posta nel concetto che tutto effettivamente appartiene al Signore del cielo e della terra e che chi possiede qualcosa è soltanto un amministratore dei beni del cui uso deve rendere conto. La novità consisteva quindi nel fatto che una dottrina tradizionale era messa seriamente in pratica ed aveva una applicazione così inconsueta da stupire o scandalizzare quelli di fuori, tanto che sin dalle origini e per molto tempo gli anabattisti vennero accusati di essere comunisti. 

Non si deve dimenticare che le comunità anabattiste sin dal loro sorgere si trovavano gettate nella fornace della persecuzione e dovevano assumere su di sé il doloroso fardello dei profughi e delle famiglie dei prigionieri e dei martiri. Erano le situazioni reali che facevano scaturire le illuminazioni di un amore fraterno in Gesù Cristo cui non si potevano porre limiti. La dottrina della comunità evidentemente non precedeva, ma seguiva l'esperienza comunitaria, e questa a sua volta era l'espressione spontanea e naturale di una vivida intuizione della vita del Cristo nelle membra del suo corpo.  . 

 4. Comunità escatologica 

V'è un altro concetto che permea ed influenza nel suo complesso la concezione anabattistica della chiesa: la considerazione del suo posto e della sua funzione nella storia. Gli anabattisti, come ritengono che tutto quello che nel Nuovo Testamento si dice della chiesa non può essere diventato parola morta per il fatto che la chiesa ha tralignato, così riconoscono che nella Scrittura tutti gli atti salvifici che Dio compie nella storia conducono costantemente e senza eccezioni alla chiesa come al loro scopo ultimo. La chiesa occupa nel piano di Dio un posto centrale ed ha una funzione insostituibile. Se la chiesa non ci fosse, nella storia della salvezza ci sarebbe un vuoto che non si vede da che cos'altro potrebbe essere colmato. Essa si trova al termine delle promesse dell' Antico Testamento ed all'inizio del loro compimento con la venuta del Cristo, che è il Messia. Senza una chiesa non avrebbe senso una continuità dell'opera di Cristo in questo mondo. Lo stesso Cristo sarebbe un maestro senza discepoli ed un re senza sudditi. E la chiesa è anche l'unica cosa che sopravviva alla fine di questo mondo e trapassi nel nuovo eone.   

L'anabattismo, pur avendo fieramente ripudiato la chiesa esistente anche nella sua versione riformata, non si accontentava di una chiesa meramente spirituale ed invisibile che sarebbe stata rivelata soltanto alla fine dei tempi con la seconda venuta del Cristo. La fede nel Cristo, l'ub-bidienza alla Parola di Dio, implicano il sentirsi membri della sua chiesa ed il costituirsi in corpo di Cristo visibile ed operante in questo mondo, anche se questo significa dar corpo ad una piccola comunità incompresa e disprezzata. 

Gli anabattisti si vedono del resto come il residuo fedele che è sopravvissuto alla grande apostasia degli ultimi tempi, sono convinti di incarnare la chiesa del tempo della fine e di anticipare, sia pur parzialmente ed imperfettamente, nella loro vita comunitaria la società giusta e fraterna del Regno.   

Una connotazione escatologica è già riconoscibile nel concetto della « nuova nascita », sentito come l'acquisizione di fatto della cittadinanza nei cieli. I rigenerati che costituiscono la vera comunità cristiana non solo vivono nella tensione esistente tra il vecchio ed il nuovo eone, tra giustizia terrena e giustizia del Regno, ma nella consapevolezza di trovarsi non già in mezzo ma in uno dei poli opposti di questa tensione. 

La speranza escatologica per gli anabattisti quindi non è soltanto attesa paziente del nuovo eone, ma preparazione attiva al nuovo ordine nell'ambito della fratellanza, che si sforza di vivere nella sua pienezza l'etica del Regno. La comunità dei credenti è vista così come una cittadella di giustizia in mezzo ad un mondo iniquo, un avamposto in territorio nemico del Regno che viene. 

 5. Comunità ordinata e disciplinata 

Quanto abbiamo visto sino a questo punto ci permette una maggior comprensione del concetto che la chiesa è una comunità « santa ». Abbiamo veduto come la « santità » venga prevalentemente concepita come aderenza all'etica sociale del Regno e quindi come un modo di vivere di cui la comunità come un tutto si sente responsabile. 

Perciò non c'è da sorprendersi che gli anabattisti, a torto reputati degli anarchici, siano prevalentemente orientati verso un tipo di comunità ordinata e disciplinata, cercando un difficile e spesso risicato equilibrio tra le spinte antitetiche che, specie alle origini, animavano il movimento. Non era difatti impresa facile conciliare la libertà individuale del credente, senza di cui non poteva avere spazio la libertà dello Spirito Santo, con l'esigenza dell'unità e della solidarietà dei fratelli, il tendenziale spiritualismo di molti con la necessità di avere nella Scrittura un punto di riferimento oggettivo e sicuro, la natura carismatica dei ministeri con il diritto della comunità di riserbare a se stessa come un tutto le scelte e le decisioni.   

È un fatto che sin dagli inizi del movimento troviamo delle Gemeindeordnungen, degli «Ordinamenti comunitari». Una Gemeindeordnung sono sostanzialmente gli Articoli di Schleitheim, del 1527, miranti in modo esplicito a mettere un freno ad una male intesa «libertà in Cristo» che poteva compromettere la qualità e l'unità della testimonianza comunitaria, ed a fornire alcuni princìpi inderogabili di condotta interna ed esterna a cui tutti i membri della comunità avrebbero dovuto attenersi una volta che fossero stati. accettati. 

Poche e talvolta anche saggiamente elastiche sono le norme che mirano a garantire l'ordine interno della comunità a definire la natura dei ministeri, la forma dell’elezione dei ministri, il modo in cui s’accede al battesimo e alla Santa Cena, o quel che si deve fare nelle riunioni. Non v'è traccia di liturgia. nessun accenno di regolamentazione dei rapporti tra varie comunità, di organismi inter o super-comunitari.   

Costante invece e sempre sottolineato con energia è il principio che la comunità ha il diritto ed il dovere di garantirsi contro chi deroga dalla sua linea dottrinale e morale ricorrendo a due misure disciplinari: l'ammonizione fraterna prima ed infine la scomunica e l'espulsione. In breve, gli anabattisti ritenevano che l'adesione alla comunità cristiana fosse una cosa molto seria ed impegnativa, sia sotto l'aspetto dottrinale che pratico. Era per essi un assurdo intollerabile che un membro della comunità potesse su cose essenziali avere idee proprie ed in contrasto con la .linea comunitaria e soprattutto pretendesse di condurre la vita che gli pareva. Secondo essi, una .comunità cristiana che vive in un mondo empio e peccatore non può non avere una testimonianza univoca ed inconfondibile.   

Ci sarebbe naturalmente non poco da dire sulle conseguenze spesso negative cui dette luogo l'uso (e spesso l'abuso) del principio disciplinare, specialmente dopo il 1535 e soprattutto nel ramo mennonita del movimento, ma è indubbio che la disciplina comunitaria ha contribuito largamente a garantire alcune fondamentali linee di pensiero comune ed un’estrema coerenza di condotta in quanti militavano nel movimento. Malgrado le molte ed aspre critiche che per questo concetto della chiesa si attirarono da più parti, ma soprattutto' dagli spiritualisti, gli anabattisti non rivelarono mai il più piccolo dubbio sulla necessità della disciplina comunitaria. Del resto il loro punto di vista trovò ben presto una conferma nel calvinismo, al quale la dottrina della chiesa disciplinata è essenziale non meno che all'anabattismo.   

Calvino pretendeva anzi che su questo punto gli anabattisti lo avessero malamente copiato, non ponendo mente al fatto che quando comparivano i Sette Articoli di Schleitheim (1527) egli era poco più che un ragazzo: « Che la scomunica sia una buona e santa istituzione non lo neghiamo, e confessiamo che nella chiesa non solo è utile ma anche necessaria. Sì, ciò che questi disgraziati ed ingrati insegnano in merito lo hanno imparato da noi, soltanto che essi con la loro ignoranza e presunzione hanno guastato la dottrina che noi riteniamo pura ». 

È legittimo quindi chiedersi se la comunità disciplinata degli anabattisti, anziché costituire il lato negativo ed antipatico della loro concezione della chiesa, non fosse una prima risposta, per quanto imperfetta, ad un problema che nell'ambito del protestantesimo non è stato sempre ed ovunque sentito in tutta la sua gravità. 

© UGO GASTALDI
UGO GASTALDI











 

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