5.11.12

Ugo Gastaldi - Scritti Inediti

Dagli scritti autografi inediti


  La famiglia Gastaldi, con estrema cortesia e fraterna amicizia, ha messo a disposizione delle Comunità anabattiste italiane alcuni scritti autografi dell’indimenticabile prof. Ugo Gastaldi. I documenti contengono alcune sue meditazioni bibliche di grande sensibilità e spessore evangelico. E’ quindi per noi un enorme piacere poterle pubblicare facendone godere tutta la loro ricchezza a coloro che ci seguono.



  - 6/11/2012 -
  In occasione della commemorazione dell'anniversario della nascita del Prof. Ugo Gastaldi, avvenuta il 6/11/1910, pubblichiamo integralmente gli Appunti da lui predisposti in preparazione di una serie di conferenze bibliche.

Ugo Gastaldi

DOVE POSARE IL CAPO
APPUNTI PER UNA MEDITAZIONE BIBLICA


* * * * * * *
I
“GESU’CRISTO IN CAMMINO”


LA VENUTA DI GESU’

“… Non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2:7).
Forse perché il cosiddetto albergo (probabilmente un caravanserraglio) era pieno. Forse perché non avevano mezzi per trovarsi un ricovero migliore di una stalla.
L’evangelista coglie, dai tradizionali racconti della nascita di Gesù, questo particolare significativo ed emblematico. Questa è stata la storia di Gesù in questo mondo, tra gli uomini: non c’è stato posto per lui, sotto tanti aspetti. Sia che questo non gli sia stato fatto: gli sia stato negato, come se fosse stato un estraneo. Sia che posto egli effettivamente non l’abbia trovato: nel senso che non ha mai potuto adattarsi alle condizioni normali di una esistenza umana, che di solito si radica in una condizione sociale e famigliare, in una situazione caratterizzata dalle circostanze spaziali e temporali.
Quando si viene al mondo, normalmente lo si viene in qualche luogo e in certo tempo.
Non ci fu posto, o non si trovò posto: si tratta comunque di un medesimo aspetto della storia di Gesù.

Nacque in una famiglia: ma i suoi rapporti con la famiglia sono problematici. Gli evangeli non ce lo mostrano mai inserito in una vita famigliare. E nemmeno egli si fece una famiglia.
Quando egli parla di vincoli famigliari (casa, fratelli, sorelle, madre) ne parla come di qualcosa che non deve mai costituire una limitazione, un impedimento: come qualcosa che deve essere, non negato, ma superato per dei legami più ampli e più forti.

Gesù è l’uomo di Nazareth: è Gesù di Nazareth, Gesù il Nazareno. Ma il suo rapporto con il villaggio natio ha ben scarsi riferimenti ed uno ne ha piuttosto negativo, che si può cogliere nelle parole che Gesù pronuncia, che non si può essere profeta in patria. Anche il suo rapporto con la sinagoga lascia perplessi. Frequenta di sabato la sinagoga, come ogni ebreo, ma spesso è causa di turbamento. Si pensa comunemente: è un uomo del popolo, che vive in mezzo al popolo.
Ma fino a che punto è vero ?
Vi è stato il cosiddetto “idillio di Galilea”, in cui le folle accorrevano ad ascoltarlo, ma alla fine della sua vita vediamo una folla che grida: crocifiggilo. E fino a che punto apparteneva al suo popolo, per il modo di pensare, di sentire, di comportarsi ? Sia il suo messaggio che il suo modo di vivere, urlavano contro la tradizione accettata, il costume, la morale corrente e soprattutto le istituzioni sociali e religiose della società ebraica del suo tempo.

Soprattutto il suo messaggio - il cosiddetto evangelo del Regno dei cieli – è qualcosa di lacerante e distruttivo. E’ egli stesso a riconoscerlo, quando dice che non si può apporre una pezza nuova su un abito vecchio senza provocare uno strappo peggiore, o non si può mettere il vino nuovo in otri vecchi senza farli scoppiare.
E’ vero quello che dice l’evangelo di Giovanni: E’ venuto a casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto” (Gv 1:10-11). Non l’hanno riconosciuto i suoi come uno dei loro e l’hanno respinto, rifiutato. Ma anch’egli, da parte sua, non si è adattato: a parlare, a vivere come tutti gli altri.

Gesù e i famigliari

La notizia che gli evangeli ci riportano dei rapporti di Gesù con i suoi famigliari non ci fanno pensare che fossero tranquilli e che ci fosse comprensione nei suoi riguardi. Essi sembrano sconcertati dal fatto che intorno a lui si accalchino le folle. “I suoi parenti, udito ciò, vennero per prenderlo, perché dicevano: E’ fuori di sé” (Mc 3:21). Marco ci narra anche come, mentre in una casa una folla gli stava seduta intorno”, “Giunsero sua madre e i suoi fratelli; e, fermatisi fuori, lo mandarono a chiamare”.“… gli fu detto: Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle là fuori che ti cercano. Egli rispose loro: Chi mia madre e i miei fratelli ? Girando lo sguardo su coloro che gli sedevano intorno, disse “Ecco mia madre e i miei fratelli ! Chiunque avrà fatto la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre” (Mc 3:31-35).
In contraddizione con questo, secondo l’evangelo di Giovanni, sarebbero i fratelli a spingerlo a uscire platealmente in pubblico. Se tu fai queste cose, manifestati al mondo. Poiché neppure i suoi fratelli credevano in lui” (Gv 7:4-5).

Gesù e sua madre

Anche nei confronti di sua madre Gesù ha un atteggiamento che è fuori della norma. Basti considerare due casi.
In Luca si riporta che una donna della folla gridò a Gesù: “Beato il grembo che ti portò e le mammelle che ti allattarono ! Ma egli disse: Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc 11:27ss.).
Due volte nell’evangelo di Giovanni Gesù si rivolge alla madre con questo appellativo: donna. E’piuttosto strano che un figlio si rivolga così alla madre. E pare che anche nel contesto linguistico semitico questo fosse piuttosto insolito. (Gv 2:4; 19:26).

Gesù a Nazareth

I rapporti di Gesù con quelli di Nazareth appaiono tutt’altro che buoni. Secondo l’evangelo di Luca, entrato nella sinagoga di sabato, lesse il passo del profeta Isaia, annunciando che quella profezia s’era avverata, suscitando ammirazione e sorpresa, ma anche riserve per la sua origine modesta e ben nota: “Non è costui il figlio di Giuseppe ?” E poiché nessuno gli chiede conto delle opere potenti fatte altrove, poiché evidentemente non ci credevano, egli disse: In verità vi dico che nessun profeta è ben accetto nella sua patria (o in casa sua)”. L’incontro degenerò in diverbio, quando egli rinfacciò loro che Elia ed Eliseo erano stati mandati a degli stranieri, piuttosto che a dei compatrioti: “Udendo queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni d’ira. Si alzarono, lo cacciarono fuori dalla città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per precipitarlo giù” (Lc 4:16-30).

Gesù non si attendeva molto dal luogo natio. Anzi viene respinto ed egli non sembra farne una tragedia: gli sembra che tutto accada com’era prevedibile. Egli quindi è libero anche dal legame con il luogo di nascita. Il cui nome tuttavia resta legato al suo: egli Gesù di Nazareth. Del resto i Giudei stretti avevano un certo disprezzo per Nazareth, in quanto era una città di frontiera Nazareth ? A Filippo che gli parla di Gesù di Nazareth, Natanaele risponde: “Può forse venire qualcosa di buono da Nazareth ?" (Gv 1:46).

Quanto incarnata la parola, in Gesù di Nazareth ?

Gesù è la Parola che si è fatta carne, cioè che ha abitato nell’uomo Gesù di Nazareth.
Fino a che punto ?
L’interrogativo è lecito se si considera che Gesù di Nazareth è un ebreo vissuto in un luogo della Palestina in un certo periodo di tempo. Ed è questa ben definita umanità che la parola dovrebbe aver assunto. Ma noi vediamo anche come Gesù si discosti da un uomo normale del suo popolo in quell’epoca: quanto non appaia del tutto condizionato dal modo di sentire e di pensare degli ebrei del suo tempo. L’umanità in cui la Parola si è incarnata non poteva non influenzare l’ebreo Gesù di Nazareth, altrimenti come si sarebbe espressa in lui la Parola che era nel principio in Dio ? con questo non si vuol dire che Gesù sia un incrocio fra il divino e l’umano, fra Dio e l’uomo. Il pensiero cristiano della patristica si è affannato ad assicurare che in Gesù Cristo, Dio e l’uomo restano distinti, senza dar luogo cioè ad un “tertium”. Il rapporto fra Dio e l’uomo in Gesù Cristo è dinamico: riguarda cioè l’azione, non la sostanza. Nell’uomo Gesù è Dio che agisce, che parla in quanto è una comunicazione che avviene. L’ebreo Gesù di Nazareth è umile, docile e soprattutto obbediente.

Questo uomo – questo Gesù di Nazareth – che è anche un uomo storico, cioè di un certo tempo e di un certo luogo, regge bene la sua parte di uomo che deve parlare agli uomini di ogni tempo e di ogni luogo.


IN GESU’ CHE CAMMINA, CONTINUA
IL “MOVIMENTO” DELL’ANTICO TESTAMENTO


 Il Gesù che è sempre in cammino è una grande metafora del messaggio che è venuto a portare nel mondo.
Gesù è venuto nel mondo e va oltre del continuo, lasciandosi alle spalle quello che vi ha trovato, senza pretendere di cambiarlo.
E’venuto in casa sua, cioè in mezzo a quel popolo che avrebbe dovuto riconoscerlo e accoglierlo, e passa oltre le tradizioni religiose e l’etica d’Israele. Prende difatti le distanze da quanto è stato rivelato ai padri, perché ha qualcosa di più elevato e conforme alla volontà del Padre da rivelare: Voi avete udito che fu detto agli antichi …ma io vi dico … Vi dico una novità !
In fondo egli non fa che rivivere il più profondo spirito che ha animato l’esperienza dei padri: il continuo movimento, l’andare oltre sotto la spinta di un movimento tanto potente quanto mirato, che forza le strutture storiche e consolidate di una esperienza che porta il suo frutto e resta viva in quanto muove verso qualcosa di migliore.
Sotto questo aspetto Gesù è profondamente in linea con l’esperienza del suo popolo: è l’incarnazione della sua tradizione.
Gesù passa oltre anche sulla concretezza del suo cammino esistenziale: va verso un dove che è oltre. Passa per non restare: per lo meno per non restare nella forma assunta.
Sono profonde di significato le parole che l’evangelo di Giovanni gli attribuisce: “E’ bene che io me ne vada, altrimenti lo Spirito non verrà a voi”. Se ne va, ma anche per tornare. Dopo Gesù viene lo Spirito. Qualcosa cioè che non si ferma e che è refrattario ad ogni istituzionalizzazione. Lo Spirito difatti è il vero vino nuovo del Regno, che spacca gli otri vecchi.
Eppure il nuovo che viene, Gesù, è il vecchio che continua nell’unica forma in cui può continuare a restare vivo: diventando sempre nuovo. La continuità con l’antico è possibile solo nel trapasso al nuovo.

La stalla di Betlemme 

Dice l’evangelista Luca che il neonato Gesù fu posto “in una mangiatoia”. Siamo quindi in una stalla.
Noi abbiamo un po’ idealizzato quella stalla. L’evangelista è stato molto più sobrio. Ha parlato solo di una mangiatoia.
Noi intorno a quella mangiatoia abbia costruito una stalla: e vi abbiamo aggiunto il fienile ancora caldo dei tepori estivi, ed il bue con il suo alito caldo, e il cammello, e l’asino e le galline, e ne abbiamo fatto il nostro confortevole presepio natalizio.
E’ un fatto che intorno a Gesù non c’è nessuno, solo il padre e la madre. Nessuno si è occupato di loro, tra la gente del luogo. Hanno ricevuto visite di estranei, venuti da altrove. Sono venuti i pastori. Sono venuti i magi d’oriente. E sono venute anche le guardie di Erode !
La stalla, come stalla, non ci dice proprio niente. E’ semplicemente invece dell’albergo, ove “non c’era posto per loro”. E’ semplicemente un segno dell’accoglienza che Gesù trova in questo mondo. Un segno negativo.

Ma questa nascita un po’ strana a Betlemme, ci fa vedere un Gesù in movimento sin dalla nascita. Il luogo, per i primi ebrei cristiani, era importante, perché Gesù avrebbe dovuto discendere dalla stirpe di Davide. Quello che qui importa è che da neonato Gesù è in movimento.

Ai pastori

La prima notizia della nascita di Gesù viene recata a dei pastori che pascolavano i loro greggi all’aperto e dormivano sotto il cielo stellato. Gli angeli non vanno ai sacerdoti del tempio di Gerusalemme.
Certamente questi racconti mitici fanno parte del bagaglio polemico della prima generazione cristiana, che si viene staccando sempre più dalla religione istituzionale del popolo ebraico.

Gerusalemme

Da Gerusalemme non vengono i sacerdoti, ma i soldati di Erode per uccidere tutti i neonati di Betlemme. Per cui i genitori di Gesù sono in fuga e debbono discendere in Egitto e rimanervi per un certo periodo.
E’stato detto giustamente che Gesù comincia la sua esistenza displaced people, come rifugiato.

Gesù sarà in movimento per tutta la sua vita. Il suo ministero è quello di recare un annuncio, e sarà per questo un ministero itinerante. Non fa echeggiare la sua voce dal deserto, come fa Giovanni il Battista, ma va dove c’è la gente. La va a cercare. Lo chiamano con rispetto con il nome di Rabbi. Ma non è il Rabbi tradizionale, che sta seduto, circondato dai suoi discepoli, in qualche località e’ un Rabbi itinerante, fuori dalla tradizione.
A quanto pare (Mt 4:12-13), dopo che il Battista fu messo in prigione, Gesù lasciò Nazareth e andò ad abitare a Cafarnaum. Non era più l’uomo di Nazareth ?

Gesù in cammino nello spazio e nel tempo

Quando si consideri la figura di Gesù in cammino, non si può non vederla configurata nello spazio e nel tempo in cui egli si muove. Come del resto è necessario fare per ogni personaggio di cui si deve descrivere il VIAGGIO come l’aspetto più saliente, se non essenziale, nella sua biografia.

Lo spazioPer quanto riguarda lo SPAZIO, vi sono subito due considerazioni da fare.

1) Non bisogna collocare Gesù in uno spazio generico in funzione di un suo generico muoversi.
Ogni essere umano durante la sua esistenza e a motivo della sua attività, si muove di solito in un certo spazio geografico, che può essere più o meno esteso.
Socrate, per esempio, per la sua attività si muove esclusivamente nella sua città di Atene, tra i suoi concittadini, ai quali si sente destinato per la sua attività di filoso ed educatore. Tanto che quando viene processato, rifiuta la condanna all’esilio e preferisce bere la mortale cicuta.
Gesù, in quanto si sente mandato alle pecorelle smarrite d’ Israele, si muove entro uno spazio geografico che va, secondo la direzione nord-sud, dalla Galilea alla giudea (praticamente non va oltre Gerusalemme, se si esclude la puntata che come neonato fece in Egitto, secondo una tradizione) e secondo la direzione est-ovest, uno sconfinamento oltre il Giordano, nella Decapoli (territori di Gadara e Gerasa) e nella Fenicia (Tiro e Sidone).
Questo è lo spazio in cui egli svolge il suo ministero itinerante, in quanto egli deve annunciare il regno di Dio ad Israele, il popolo che ne attende la venuta secondo la profezia. Considerato sotto questo aspetto, il muoversi di Gesù non costituisce ancora un VIAGGIO.

2) Nella seconda parte del suo ministero, invece, Gesù si muove in una direzione precisa: va verso Gerusalemme. Perché è là che deve concludere la sua missione di profeta e la sua rivelazione di personaggio escatologico (colui che doveva venire).
E questa conclusione doveva praticamente concludersi con la sua morte, con la croce. Per cui si può dire che la vita di Gesù, in quanto viaggio, è un andare consapevolmente verso un destino che lo attendeva.

Il tempo – Per quanto riguarda il TEMPO, Gesù si mostra altrettanto consapevole di muoversi in un tempo tutto suo, in un tempo che gli è assegnato, in quanto sta andando verso una meta.

Entro quanto tempo, che è il breve tempo del suo ministero (non più di tre anni), Gesù sa che vi è una sua ORA. Il vangelo di Giovanni, particolarmente, ci mostra un Gesù estremamente consapevole che deve venire una sua orae che egli gli sta andando in contro. Quando sarà a Gerusalemme, egli dirà: “Ora l’anima mia è turbata; e che dirò? Padre salvami da quest’ora? Ma è per questo che son venuto incontro a quest’ora” (Gv 12:27).
Gesù sin dal principio parla della “sua ora”. Alle nozze di Cana, rispondendo alla madre dirà:
“L’ora mia non è ancora venuta” (Gv 2:4).
Ed i fratelli, che lo esortano ad andare in Giudea, risponde parimente: “Il mio tempo non è ancora venuto: il vostro tempo, invece, è sempre pronto” (Gv 7:6; cfr. anche 11:9-10).
Accomiatandosi dai discepoli comincia la “preghiera sacerdotale” con le parole: “Padre, l’ora è venuta” (Gv 17:1).

Naturalmente queste sono solo le premesse di un discorso sul Viaggio di Gesù e sulla sua ora che ci completi la figura di Gesù in viaggio.

NON AVERE DOVE POSARE IL CAPO

Del seguire Gesù è necessario distinguerne i suoi due aspetti:


1) C’è l’invito di Gesù ai suoi discepoli sul contesto storico di quell’invito. Voleva dire seguirlo sulla via della Palestina di quel tempo, come ebrei di quel tempo in mezzo al popolo ebraico di quel tempo: pezzo di mondo significativo, ma relativo, cioè “storia”.
2) V’è l’invito a seguirlo dopo che l’ora di Gesù, la sua ora si è compiuta, cioè dopo la sua morte e la sua resurrezione.
Il “seguirlo” cambia aspetto: è ancora un camminare nel mondo e nella resurrezione, con la visione del Risorto che ci precede, nella morte, nella resurrezione, nell’innalzamento.
Allora in questo seguirlo, se è preso sul serio, con una fede in Cristo veramente aderente a questo Cristo, non si ha davvero una pietra su cui posare il capo.
Se si cammina nella storia con la visione del Cristo crocifisso, risorto e innalzato, si cammina con i piedi sulla terra ed il capo dov’è Cristo.
Con i piedi sulla terra: prudenti come serpenti.
Con la testa dov’è il Cristo: puri come la colomba.
Serpenti e colombe! Le due cose insieme.
Niente allora è più stabile (anche perché effettivamente non c’è niente di stabile. La “stabilità”è un’aspirazione tipicamente umana ! Non abbiamo qui una città stabile. Tutto diventa provvisorio.
Si vive nel “come se” di Paolo.

Testo:
“ Allora uno scriba, accostatosi, gli disse: Maestro, io ti seguirò dovunque tu vada. E Gesù gli disse: le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo ”. (Mt 8:18-20) = (Lc 9:57-58). 
Contesto:
Il contesto è costituito da tre episodi di solito noti sotto il titolo: seguire Gesù. Proposito dei quali c’è da rilevare che Gesù respinge chi si offre di seguirlo (come nel nostro caso) e sollecita a seguirlo subito che vorrebbe adempiere certi doveri, come seppellire il padre o salutare quelli di casa.

Il testo è interessante perché trattandosi di seguire, senza riserve, LUI, il Maestro, Gesù parli di sé e del suo “andare”.
La ragione per cui l’evangelista pone qui questi detti la si deve vedere nel fatto che Gesù viene mostrato in movimento: siamo in Galilea ed egli passa in barca coi discepoli da una riva all’altra del lago.
Comunque si deve tener presente che, secondo il testo, Gesù non respinge l’offerta dell’entusiasta, ma gli ricorda cosa effettivamente significhi seguirlo.

Le tane e i nidi

Le volpi debbono fare vita randagia per potersi procurare il cibo. Ma hanno almeno una tana, ed una tana significa un luogo nascosto e consueto e poter riposare tranquillamente.
Gli uccelli del cielo passano tutte le ore di luce svolazzando tra gli alberi ed il suolo perché ogni giorno debbono cercare quello che occorre al loro sostentamento. Ma hanno quel piccolo ricovero fatto per sé e la propria nidiata. Quando scende la notte è nel proprio nido che trovano riparo e riposo.
La tana, il nido rispondono al bisogno di sicurezza, tranquillità, riposo, stabilità. E sono una cosa propria: la propria tana, il proprio nido. Inoltre gli animali che vivono nelle condizioni naturali, debbono pensare alla loro prole. Anche quando li costringe a provvedervi di un luogo protetto e preparato, che garantisce la sicurezza. Qui nelle tane devono nascere i piccoli delle volpi. Qui, nei nidi, le femmine degli uccelli devono deporre le loro uova e covarle, qui devono restare ed essere nutriti i loro piccoli finché giunga l’ora di prendere il volo.

Tane e nidi significano protezione: condizioni sicure di vita.
Nella femmina è più forte questo bisogno istintivo del luogo sicuro. Ma è anche del maschio, sebbene sotto un altro aspetto. Nel maschio è bisogno della casa propria, sicura, stabile. La tana, il nido significano anchequiete. Normalmente la vita si svolge nell’irrequietezza, se non nel rischio e nella fatica. Trovare quiete, quando si vive nell’irrequietezza, nel rischio: questo significa avere una tana, avere un nido !
E’ il Figlio dell’uomo
Può vedersi un senso figurato, sul riferimento alle volpi e agli uccelli ?
Il biblista J.C. Fenton vede una relazione con le volpi, termine usato per Erode (Lc. 13:32) e gli erodiani, e con gli uccelli dell’aria, termine usato per i Gentili (Mt. 13:32). Il detto avrebbe potuto aver avuto questo significato originario: “Everyone else has his place in Israel, except the true King of Israel, the Son of man”.

Ipotesi improbabile, Gesù si rivolge ad uno scriba, forse un discepolo, dal momento che è chiamato Maestro. Ma che Gesù possa parlare come Figlio dell’uomo atteso, è un suggerimento utile.
Gesù è il Figlio dell’uomo atteso, ed ecco la sua condizione: non ha dove posare il capo.
Secondo altri si può azzardare l’ipotesi che lo scriba facesse la sua offerta in vista dei vantaggi che avrebbe ricavato nel caso che Gesù fosse stato veramente il Messia, come del resto le potenti operazioni lasciavano pensare.
Anche accettando questa interpretazione – con un prudente forse – si può spiegare come Gesù risponda in quanto Figlio dell’uomo. Come tale non l’attendevano successo, onori, potere, ma esattamente il contrario.

“ Maestro dove dimori ? ”

“Che cercate ?
Ed essi gli dissero: rabbi dove abiti ?
Ed egli rispose loro: Venite e vedrete.
Essi dunque andarono, videro dove abitava e stettero con lui quel giorno“ (Gv. 1:38-39).

Gesù passava ed è il Battista che lo addita ai suoi due discepoli.
“Ove dimorava Gesù ? in qualche grotta sulla riva del Giordano, o in un caravanserraglio, o in una casa amica ? Lo ignoriamo.” (F. Godat, Jean, 174).
Si era in Betania al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando (Gv. 1:2).
Ma il testo non lascia capire che ci si trovano in luogo abitato: “in Betania ” è semplicemente un punto i riferimento per una zona che doveva essere desertica.

“Maestro dove dimori ? ”
La domanda ha tuttavia un senso primario, comprensibile sulla situazione in cui viene pronunciata. I due che seguono Gesù vogliono diventare “ discepoli “ di questo “ rabbi “, un rabbi nuovo, che ancora nessuno conosce.
Forse anche perché per i due questa è un’ occasione: siamo lontani dalle zone più popolose della Palestina, dalle città, dove di solito si possono trovare dei rabbi.
Irabbi, tradizionalmente, insegnavano nella loro casa: insegnavano liberamente e liberamente erano seguiti. Non erano al servizio di una istituzione.
Accoglievano coloro che volevano ascoltarli, senza impegni e condizioni da una parte e dall’altra. Sedevano in terra, come era generale costume in quel tempo in Oriente.
Ilrabbi tradizionale era un sedentario.

Posare il capo

Posare il capo per dormire …Come Giacobbe, ramingo, posò il capo su una pietra, ed ebbe allora la visione della scala famosa su cui scendevano e salivano gli angeli.
Il sonno: è il segno evidente dei limiti anche fisiologici degli messeri viventi sulla terra.
La vita per una parte del giorno deve cessare, perché l’organismo recupera la sua forza. avviene per la maggior parte degli esseri viventi in coincidenza con la notte.
La vita ha i suoi ritmi, come tutto ciò che è su questa terra.

Anche Gesù ha bisogno di dormire, come tutti. E difatti dorme, anche se gli evangeli di rado mettono in evidenza questo aspetto della sua vita. E’ detto che dorme in barca, quando i discepoli passano all’altra riva del lago di Galilea.
Quando Gesù dice che il Figlio dell’uomo non sa dove posare il capo, vuol dire innanzi tutto che non ha la garanzia del quotidiano riposo in luogo sicuro e consueto.
Cammina ogni giorno e non sa dove la sera si fermerà per la necessità del sonno. Ha quindi anche questa necessità, come quella del nutrirsi. Come quella di stancarsi.
La sua umanità è completa. E’quella nostra.

L’andare ramingo di Gesù …

Non ha dove posare il capo … -in questo andare ramingo di Gesù, senza avere dove posare il capo, è la sua passione. E’ il suo essere mandato sulla terra per un’opera e con un messaggio.
E’venuto ai suoi, è venuto in casa sua, come dice il Prologo giovanneo. Deve picchiare alle porte: per essere ricevuto, per essere respinto. Anzi o per essere respinto e provarne tutta la tristezza, per essere ricevuto ed esserne consolato e rallegrato.
Ed il suo non è un andare vagabondo, senza una meta precisa ed un itinerario programmato, non curante del tempo che trascorre. Per un vagabondo ogni ora è buona. Per Gesù non è così.

Senso del tempo … - E’impressionante, nel racconto di Giovanni, vedere quanto Gesù tenga conto del tempo.
“Bisogna che io compia le opere di colui che mi ha mandato mentre è giorno; la notte viene in cui nessuno può operare” (Gv 9:4).
Si ha l’impressione che Gesù conti le ore: “Non vi sono dodici ore nel giorno?” e parla spesso della sua ora: l’ora sua che deve venire, per la quale è venuto. Egli va verso quell’ora. E’ un andare verso quell’ora in cui la sua opera sarà compiuta: l’ora della croce. E non si dà requie finché quell’ora non sia venuta.
Anche il Risorto cammina …! - Questo Gesù Cristo anche dopo la morte sulla croce continua a camminare. Cammina, su una via, quando si accompagna ai discepoli di Emmaus. E continua a camminare!
E si accompagna, con la sua misteriosa presenza, a chi cammina sullo sconforto, sulla sofferenza, ovunque vi sia un uomo che lotta contro la morte e si sforza di incarnare l’amore, portando la sua croce.
Io sarò con voi sino alla fine del mondo”. Sì, ma in un andare, in un essere per via, in un cammino, specie se è doloroso. E se è così, è in agonia sino alla fine del mondo.

Gesù: il viandante

Il Gesù che non sa dove posare il capo ci offre la sua coscienza di viandante e pellegrino che tale si propone ai suoi discepoli. E qui è la profondità del suo insegnamento.
Il Regno dei cieli che egli propone è una META verso cui camminare. Una meta che non trova evidentemente riscontro in niente di mondano e di storico. Non si vede dove e come quel Regno possa realizzarsi. L’unica sua presenza è data dalla fede e dall’opera di chi l’annuncia e da coloro che si fanno suoi discepoli.

Nella generazione apostolica, fatta da sradicati dall’ebraismo e dal politeismo è fortissimo il senso dell’essere in transito e della provvisorietà e instabilità di tutto ciò che è mondano e storico. Si è in viaggio verso la città in cui abita giustizia e qui non c’è nulla di stabile. Anzi, l’evangelo per sua natura destabilizza.
Il cristianesimo del NT, spogliato della sua mitologia, o meglio, giustamente interpretato nella sua simbologia, ci offre il senso profondo e misterioso del rapporto di Dio col mondo e del senso dell’esperienza umana sulla terra.
Anche l’attesa imminente della parusia, della fine del mondo, del giudizio universale, della resurrezione dei morti, può essere ripensata in funzione dell’essere in transito, della provvisorietà di tutto, e di un Dio che cammina con noi, invisibile e reale, verso una meta che è oltre.
E Gesù è l’incarnazione di questo uomo nuovo che sta tra il tempo e l’eternità, uomo unico e universale, perché incarnazione di una eterna parola creatrice.
L’invito dell’apostolo Paolo (altro nomade) al viaggio ed alla provvisorietà (al “come se non”)di chi si spinge oltre, all’estremità del tempo che finisce.
Gesù è il viandante che ci invita a diventare viandanti.

Le radici

Il Gesù che non ha dove posare il capo è anche l’uomo che non può contare sulle proprie radici. Ogni uomo in quanto essere umano viene al mondo in una famiglia, in un gruppo etnico, in un paese, e qui normalmente trova sostegno, condizione e motivo per la propria normale esistenza. Questo significa avere radici, essere radicato.

Gesù e le sue radici …
Gesù nasce in una famiglia. Ha avuto padre, madre, fratelli e sorelle. E’ nato in un villaggio della Galilea. E’ un ebreo del suo tempo.
Ma in che rapporto è con le sue radici ebraiche? Con le sue radici in senso generale?
Certamente un rapporto problematico.
Un rapporto problematico con la famiglia, con la gente di Nazareth, con i costumi, la morale, la religione del popolo ebraico.

Normalmente l’uomo ha bisogno di essere radicato, di avere radici e di metterne di nuove, i cosiddetti radicati sono una eccezione. Il mettere radici è un fenomeno biologico. L’immagine delle radici, del radicamento, è preso dal mondo vegetale. Le radici significano sicurezza, stabilità, condizioni di sviluppo.
Nella storia della natura si è avuto alle origini una specie di brodo primordiale in cui tutto era in movimento, in cerca di vita. Finché non compare la pianta (che è legata alla terra emersa!).
Anche l’uomo conserva l’istinto della pianta, come tutti gli esseri viventi, e certamente molto più di esse. Le sue prime radici sono il gruppo in cui nasce. Per migliaia di anni gli uomini sono stati nomadi, come cacciatori e allevatori. Poi hanno cercato stabilità sulla terra, come agricoltori e cittadini.
Anche gli Ebrei furono un popolo nomade, finché non si stabilirono sulla terra di Canaan. Ma la loro esperienza abbastanza recente di nomadi era rimasta nella loro memoria storica.

Il Dio dei padri quando erano nomadi

Domanda della donna samaritana: E’ sul monte Garizim che si deve adorare o a Gerusalemme? Forse per lei questo era un problema ma non per Gesù, che le risponde: né qui né là si dovrà adorare, perché i veri adoratori adoreranno Dio in spirito e verità.
Né sul Garizim, né su Gerusalemme … non certo in qualche apposito edificio: tempio o santuario …
Nulla di esterno, di materiale, nulla che faccia appello ai sensi, deve mediare tra Dio e l’uomo che si rivolge a lui. Non ci sarà più bisogno di luoghi sacri. Dalle belle pietre di cui era costruito il Tempio di Gerusalemme, Gesù disse che non sarebbe rimasto pietra su pietra.

Come mai questa novità?

In Gesù riaffiora lo spirito dell’antico Israele nomade, che a motivo del suo peregrinare non aveva particolari luoghi di culto, e che solo diventando un popolo sedentario si dette dei re e si costruì templi.
La tradizione del periodo nomade resistette a lungo. Il Dio d’Israele può dire a Davide, che voleva edificare il tempio di Gerusalemme: “Io non ho mai abitato in una casa” (2Sam. 7:6). E’ vero che anche al Dio dei pastori s’innalzavano altari, ma sotto il cielo aperto.
Il Dio dei pastori è El, ed il cosiddetto scrittore eloista rappresenta la sua tradizione, accanto a quello di Jahveh.
Jahveh è il Dio rivelato da Mosè. Egli volle che si preparasse una “tenda di convegno”. La tenda precorre il tempio.

Gesù: una rinuncia totale, uno spogliamento

Il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”… - contrasto estremotra le volpi e gli uccelli, che hanno tane e nidi in cui stare tranquilli e riposare, ed il Figlio dell’Uomo, il personaggio dell’attesa dei secoli, che è venuto da Dio, anche se la sua gloria ora è nascosta. Ecco l’abbassamento, la spogliazione, la rinuncia spinta oltre ogni limite comunemente accettabile su questa terra.

Ma ormai Gesù ha il suo viso rivolto a Gerusalemme, ove è il compimento della sua missione ed ove la Croce lo attende.
Chi mai può seguirlo su questa via? Il suo cammino è unico: l’opera che è chiamato a compiere lo vuole solo. Gesù sembra disilludere coloro che si offrono di seguirlo, di essere con lui qualsiasi cosa faccia o gli accade. La croce che lo attende è solo per lui: e la sua croce. C’è una croce per ciascuno. Le volpi hanno tane, gli uccelli nidi … E’ tutto naturale. Così anche per gli uomini avere una casa, un minimo di agio per il riposo: dove posare il capo. Qualche cosa dobbiamo pure alla natura. Correndo però il rischio di essere trattenuto, di essere tentato di ritardare.
Ma Gesù non si concede nulla. Si riserva tutto ed esclusivamente al compito che è suo. Chi dunque può illudersi di poterlo seguire ?

Gesù in cammino: stanco, affamato, assetato

Povero, stanco, affamato e assetato - lo vediamo seduto presso il pozzo di Giacobbe nell’episodio della samaritana; “Dammi da bere”. E quando tornano i discepoli, che sono andati al villaggi a cercare cibo: “lo pregavano, dicendo, Maestro mangia!”
Ma egli risponde che ha un altro cibo da mangiare, che essi non conoscono (Gv 4:31). Il suo cibo è fare la volontà di colui che l’ha mandato, di compiere l’opera sua” (Gv 4:54).
Gesù è l’uomo che ha sempre lo sguardo oltre quello che fa, oltre quello che gli capita, oltre l’ora che scorre: che va vedendo davanti a sé qualcosa che gli altri non vedono, che cammina con una visione che lo prende e lo soggioga, e da senso al suo andare.
Ed ha anche lo sguardo oltre quel che le persone appaiono, per vedervi la creatura che Dio ama. E che al di là della morte vede la vita.
Oltre: è la categoria con la quale comprendeva questo Gesù che si muove e va dove egli sa, che sa dove va, oltre.

Stanchezza e riposo: Gesù offre riposo 

Gesù, stanco del cammino, stava così a sedere presso il pozzo (Giov. 4:6)
“… erano stanche e sfinite come pecore senza pastore (Mt. 9:36)
“Venite a me, tutti voi che siete stanchi e oppressi, ed io vi darò riposo” (Mt. 11:28)
“Ed egli disse loro: venitevene ora in disparte, in un luogo solitario a riposarvi un poco”
(Mc 6:31).

L’uomo che non ha dove posare il capo offre riposo: riposo con lui!
Lo offre ai suoi discepoli, invitandoli ad andare in disparte con lui.
Lo offre a tutti coloro che fanno il viaggio della vita.

Bisogna che io cammini: oggi, domani e postdomani

In quello stesso momento vennero alcuni Farisei a dirgli: “Parti, e vattene di qui, perché Erode ti vuol far morire”. Ed egli disse loro: Andate a dire a quella volpe: Ecco, io caccio i demoni e compio guarigioni, oggi e domani, ed il terzo giorno giungo al mio termine”. “D’altronde,bisogna che io cammini oggi e domani e posdomani; perché non può essere che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” (Lc 13:31-33; = Mt. 23:37-39).

La vita di Gesù è insidiata e spesso è costretto ad andarsene da un luogo.
D’altra parte egli sa che deve andare a morire a Gerusalemme.
Quindi egli ha un forte senso dei tempi in cui si svolge il suo ministero. Sa che c’è una sua ora.

Gesù in cammino si lascia distrarre

Dice Miguel de Unamuno, a proposito delle avventure di Don Chisciotte, che, in questo, era discepolo di Gesù Cristo:
“Se cosa più urgente, quella che soprattutto importa, è quella di “ora” e “qui”: in un istante del tempo che trascorre e nello spazio finito, limitato, che occupiamo, sono la nostra eternità e la nostra infinità”.
Soltanto che don Chisciotte andava alla ventura in cerca di gloria, lasciandosi guidare dal cavallo. (M. De Unamuno. Commento alla vita di don Chisciotte, dall’Oglio, Milano 1955, pg. 20).
Gesù difatti non era mai così determinato al raggiungimento di una meta, da non accettare ciò che gli si offriva lungo la strada; come quando, muovendo verso la casa di Jaivo per guarirne la figlia, si lascia distrarre dalla donna che perdeva sangue. (Ce ne sono altre di queste distrazioni?)


 SI DIVENTA
Si diventa, che cosa resta di noi ?

Non ci si muove solo nello spazio, ci si muove anche nel tempo. E’ comune il detto che la vita è un cammino. Dante dice: “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura. Che la diritta via era smarrita”. Si mescolano le immagini del muoversi nel tempo con quelle di muoversi nello spazio. Si parla di una “via della vita”. Nell’andare nel tempo ci si può “ritrovare” dove non ce l’aspettiamo, ci attende l’imprevisto. La vita è anche rischio. In questo andare nel tempo si diventa. Ma il diventare è anche esso un’ enigma.

Quando si diventa, siamo noi che diventiamo, nel senso che sviluppiamo delle sensibilità che erano in noi, e che nel diventare si resta se stessi ? Restare se stessi, significa restare quelli che si era prima ? Ma cosa si era prima, se non insieme si diventa possibilità ? Eppure non possiamo negare che si è ancora se stessi. Quel se stessi che eravamo da ragazzi, da giovani: quando si è partiti per l’avventura della vita. Eppure la domanda è legittima: che cosa resta di noi ? il che significa: che cosa resta di quello che eravamo ?

Ma se si guarda a fondo e con coraggio, bisogna prendere atto di questa realtà: abbiamo cambiato continuamente e il nostro io cosciente sembra piuttosto – più che il principio e la condizione – il derivato e la conseguenza di un flusso cangiante e ininterrotto di stati psicologici. Come voleva Hume quando profetizzava l’ Io e negava che fosse una sostanza.
Eppure questa la sento come la mia storia.

Cosa siamo diventati ? Che cosa resta di noi ?

Vengono anche i momenti, e sono i momenti in cui stiamo un po’ fermi ed abbiamo agio di volgersi indietro, in cui ci mettiamo a considerare la nostra storia. Soppesiamo quello che ci è accaduto e soppesiamo anche noi stessi.

Chiede Edgar Morin nell’ultima pagina della sua Autocritica (n.222).
“Che cosa resta di voi ? Siete diventati poveri, corrosi, squamosi, spugnosi?Vi siete induriti, corazzati, disgregati ? Avete resistito alla lenta deriva dell’età ? Avete raggiunto i segreti della maturità senza perdere i segreti dell’adolescenza ?”
Forse Movin aveva in mente il mito di Glauco, il pescatore della Beozia che era diventato un dio marino. Forse ha in mente certa specie in cui la necessità di proteggersi ha prodotto squame a corazza.
L’età è una lenta deriva se nuovamente ci si allontana da una direzione. Ma è una direzione ? C’è un destino ? (c’è una“dicha”, come dicono gli spagnoli ?) l’adolescenza ha davvero dei “segreti” o non piuttosto il suo “segreto” è di essere di fronte all’incognita, al mistero della vita, che l’adolescente sente fortemente, fino a soffrirne ?
Forse più che la maturità è la vecchiaia che ha acquisito dei segreti. Perché qualcosa dell’enigma della vita gli si è svelato.
“Che cosa avete imparato ? Che cosa sapete ora dell’uomo o della natura ?”, si chiede Movin. Non tutti, naturalmente, possono darsi la stessa risposta. E ci sono anche quelli, e sono i più, che non sanno cosa rispondere.

Che cosa abbiamo imparato dalle nostre storie e dalla storia ? 

Che cosa ho imparato, che cosa abbiamo imparato, alla fine della nostra storia personale ?
Che cosa possiamo imparare, a questo punto della storia dell’umanità ? (che non è poi una lunga storia).
Che cosa sappiamo ora (a questo punto) della dell’uomo ? 

E chi è in grado di dare una risposta ?
Alla fine della sua giornata ciascuno di noi può guardare indietro,per rendersi conto della strada fatta, per rintracciarvi un percorso, una via (una via a qualcosa, a un dove).
Ognuno ha la sua via. Differente da quella degli altri (Vie per modi di dire, perché in genere tutti siamo erranti: o facciamo percorsi di vagabondaggio (quando lo si può), o percorsi obbligati dalle circostanze della vita.
A chi rivolgersi, per interrogare: a noi stessi ? A quell’uomo che sono io ? oppure“all’uomo”.
Che cosa posso dire dell’uomo ?posso fare solo affermazioni opposte, perché l’uomo è sempre una contraddizione. Vi sono negazioni da fare, ed anche opposizioni positive. Ma si rivela qualcosa sull’uomo ? Mi si rivela solo la sua contraddizione.
Ed è già molto se il nostro spirito riesca attraverso un lavoro sotterraneo, a minare certezze e sicurezza che ci provenivano da tutte le parti: da noi stessi ma soprattutto dalle fedi senza fondamento di coloro che pretendono di cambiare la vita (naturalmente degli altri).

La vita come viaggio 

La vita è come un viaggio nel tempo anche se non ce ne rendiamo conto. Perché ci inganna il fatto che di solito restiamo sempre nel medesimo spazio. Comunque la vita è caratterizzata dal fatto che si viene e si va. Da dove ? Verso dove ?
La vita è un viaggio perché diventiamo. Il ragazzo cresce e non si sa ancora che cosa diventerà.       
L’uomo adulto e maturo è diventato. Anche se non sempre è diventato “qualcuno” nel senso di questa comune esperienza. Ma in ogni modo qualcuno è diventato.
Nel senso che ha finito di diventare ? Talvolta può anche darsi. Ma è veramente un finire di questo genere ? Si arriva davvero ad una “fine” ? c’è una risposta, sincera e definitiva, a questa domanda: Chi sono ?
Quella di essere “arrivati” è probabilmente un’illusione. Come può essere una delusione. Quando non si è contenti di sé, come spesso accade. Ed allora l’idea di essere ancora in cammino può essere confortante. E’ questo difatti il conforto di chi ha una fede. Allora la “riuscita”, il “successo”, appaiono per quel che sono: un mito, una illusione, una sensazione.
E’ un inganno assai simile all’ “inganno della ricchezza”. L’inganno sta nella stabilità. Il ricco stolto dice a se stesso (all’anima sua): riposa, mangia, bevi, godi. Ecco un uomo che si è fermato, che è convinto di essere arrivato al punto che non rende più necessario l’andare avanti.

Fermata e sosta 

L’alternativa del viaggio, del cammino, è il fermarsi, l’insediarsi, lo stabilirsi. E’anch’essa un’inclinazione, opposta a quello che spinge ad andare, a camminare, ad essere pellegrino, col corpo e col pensiero. Delle due qual è quella vincente? Ma soprattutto: delle due qual è quella che va nel senso giusto e muove l’uomo verso il suo autentico destino ? l’uomo si porta dentro e dietro questa contraddizione, che alla fine deve risolversi, ma non con la sintesi degli opposti, ma con l’eliminazione di uno dei due.
L’opposto dell’andare, dell’essere pellegrini è l’insediamento. Che non deve essere confuso con la “sosta”. La sosta è una fermata di breve momento. La sosta è un momento del viaggio. Momento necessario e salutare. Necessario perché c’è il bisogno del riposo, ma anche perché si cammina di giorno, non di notte. Salutare, perché la sosta ritempra le forze del viandante col riposo. Ma anche perché è la sosta a dare il senso dell’andare verso qualcosa, del viaggio e del pellegrinaggio.

Gesù non rifiuta la sosta. 
Noi lo vediamo spesso sostare, mai fermarsi. Egli va, sempre. Dove vai ? Gli chiedono i discepoli, quando Gesù rivela che la sua“ora” è vicino: l’ora della partenza. I discepoli devono aver avuto una vivida sensazione di questo atteggiamento caratteristico di Gesù. Dove vai Gesù ? verso la fine del suo mandato, verso il ritorno al Padre.
Noi siamo viandanti, ma siamo anche deboli. Alla sera siamo stanchi. Sentiamo il bisogno di posare il capo su qualcosa … Anche il riposoè una necessità. E c’è anche un discorso legittimo sul riposo.

La tentazione di fermarsi: la trasfigurazione e la proposta di Pietro

Il fermarsi, lo stabilirsi, è una perenne tentazione. Anche per chi viaggia al seguito di Gesù di Nazareth. Vedi il caso di Pietro, che nell’episodio della trasfigurazione, si rivolge al Maestro con queste parole:
“Maestro è bene che stiamo qui. Facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, e una per Elia. Egli non sapeva quel che diceva” (Lc 9:33).
E’ anche la tentazione di rendere costante la contemplazione. Il monte della trasfigurazione. In basso è la pianura, con le sue strade: altre tentazioni, ostacoli all’andare.


GESU’ CRISTO E IL MONDO

Nell’Evangelo di Giovanni è conflitto aperto tra Cristo e il mondo.
Il leit motifdi questo evangelo è quanto viene affermato sin dal prologo:
“Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l’ha conosciuto. E’ venuto in casa sua, e i suoi non l’hanno ricevuto”. (Gv. 1:10-11)
La Parola-Luce viene nel mondo che pure era stato fatto per suo mezzo e viene nel suo popolo, Israele, in quanto si incarna in Gesù di Nazareth.
Non si trattava dunque di un estraneo. Il mondo era suo, come era suo, il popolo di Israele per l’elezione.
E’ dunque qui la tragedia della storia del mondo (perché questa è anche una storia del mondo!).

Questo mondo, che era stato creato buono, è diventato cattivo (e sotto questo aspetto il mondo di cui si parla è il mondo degli uomini, ma anche il mondo nel suo insieme non è innocente).
Questo mondo è ora retto dal Maligno “principe di questo mondo(Gv. 16:11), che fin dal principio introduce nel mondo la menzogna , il peccato, l’omicidio. (Gv 8:44; 1Gv 3:8-10). Per cui si può giungere a questa finale e sconsolata constatazione: che “tutto il mondo giace sotto il maligno”.
Nulla tolgono a questa visione pessimistica del mondo la ripetuta affermazione che “Dio ha tanto amato il mondo” (3:16), “che ha mandato il suo Figlio nel mondo non per giudicarlo, ma perché il mondo sia salvato” (3:17), il quale ha anche detto “darò la mia carne per la vita del mondo”, o infine “io ho vinto il mondo” (16:33).
Resta il fatto che nell’evangelo di Giovanni mai è detto nella lettera e nello spirito, che questo mondo sia un mondo “salvato”.
Anzi è detto che è già avvenuto il giudizio di questo mondo (12:31). Gesù ha visto Satana precipitare da cielo, ma a quanto pare sulla terra è ancora forte e la tiene stretta.
Per quanto questo mondo appartenga di diritto a Dio, che l’ha creato, anche se si è così guastato, Gesù è sempre respingeva ogni relazione con questo mondo.
Egli dice di essere odiato da questo mondo (7:7)
Egli può fare questa grave affermazione “io non sono di questo mondo” (8:23) come non lo sono nemmeno i suoi discepoli (15:19).
E nell’accommiatarsi da essi, nella cosiddetta preghiera sacerdotale, egli afferma: “non prego per il mondo” (17:9).

Ed in quanto alla sua dignità di Re-Messia, non pare che sia venuto in questo mondo per instaurare il regno di Dio. Messo a confronto con Pilato, rappresentante di Cesare, egli afferma “il mio regno non è di questo mondo”.
Si ha addirittura l’impressione che il Cristo non lo degni neppure di un suo ritorno (in questo evangelo non si parla di parusia! contro 14:3) quando nel lasciare il mondo egli dice: il mondo non mi vedrà più (14:19,22).
E’ proprio il caso di dire, che Gesù sia venuto proprio per salvare dal mondo, per quanto questa espressione possa irritare certi teologi che vorrebbero un concetto meno angusto o meno antimondano della salvezza e lascino con disprezzo agli evangelisti del tipo Billy Braham.
E non pare che questo discorso lo facesse solo Giovanni. Negli Atti leggiamo che l’apostolo Paolo “con molte altre parole li scongiurava e li esortava dicendo: Salvatevi da questa perversa generazione” (At. 2:40).

Gesù e i potenti di questo mondo

Gesù parla con molto distacco dei potenti di questo mondo, “dei principi delle nazioni che le signoreggiano e le dominano”, e raccomanda anzi ai discepoli che tra loro “non sia così”.
Re e governatori gli sono lontani. Troppo distacco, per poter fare del profeta di Galilea un ribelle, un rivoluzionario, o semplicemente un agitatore del popolo.
Chi l’ha visto così ha preso un abbaglio, un grosso abbaglio.
Quando dopo la moltiplicazione dei pani coloro che ne avevano mangiato volevano rapirlo per farlo re (un nuovo potente contro i potenti), sembra che sia stato molto contrariato. Meglio si direbbe: deluso. Deluso come chi si accorge di non essere stato capito, nemmeno un poco.
Mettersi contro Cesare? Eppure, come Messia, avrebbe dovuto farlo. Invece questo “re d’Israele” e Cesare si muovono su due rotte completamente diverse. Non c’è pericolo di collisione.
Quando Pilato gli chiede: sei tu il re dei Giudei? Egli lo nega, perché si ritiene il Cristo, però precisa: Il mio regno non è di questo mondo, se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero …; ma ora il mio regno non è di qui”. Di dove dunque è?
Queste affermazioni, come l’altra, a proposito della moneta, che bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio, disturba tutti coloro che ritengono che l’evangelo non si può separare dalla politica e che i cristiani debbano stare dalla parte dei rivoluzionari. Ma queste parole, allora? Gesù non deve averle mai dette. E gli apostoli ? Dei falsi testimoni ….

Non si è adattato …

“Il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo …”
Non ha perché non ci riesca, probabilmente. Non solo perché gli si rende la vita difficile.
Gesù non si adatta al mondo in cui si trova. E’sostanzialmente un disadattato.
Come dovrebbe essere l’uomo dal momento che si rende conto di se e di questo mondo.
Quando apre gli occhi sulle contraddizioni della vita e scopre in se stesso la più grossa contraddizione con questa vita.
Gesù è “posto per segno a cui si contraddiva(Lc 2:34). Ma anch’egli ha molto da contraddire.


© Ugo Gastaldi


II
IN CAMMINO CON GESU’

APPUNTI PER UNA RIFLESSIONE


* * * * * * * * *

IL REGNO DI DIO E’ DA CERCARE,
A NON FINIRE!


“Cercate prima di tutto il regno e la sua giustizia; tutto il resto vi sarà dato in più” (Mt 6:33).

Il regno è da “cercare”, e “cercare”implica che non si sta fermi, ma si vada, ci si muova.
Il regno è da “cercare”: quindi non è da fare, né è fatto.
Si deve sentire come un bisogno, e quindi quello che si cerca è la risposta a questo bisogno.
Ma la risposta ad un simile bisogno - il regno con la sua giustizia – non può venire da noi. Non può venire che da fuori di noi, nel senso di oltre di noi. Come qualcosa che deve entrare.
Per cui anche lo si deve attendere. Ma poiché si tratta del regno e della sua giustizia, non lo si può attendere stando fermi, rimanendo passivi: Esso è un bisogno, come la fame e la sete. Perciò è detto che il regno lo si deve cercare.
E’qualche cosa che deve venire ed anche qualche cosa verso cui bisogna andare. Per cui è detto che bisogna cercare.
Gli evangeli hanno anche un “linguaggio del regno”. E vi è detto che nel regno “si entra”. Anche l’entrare presuppone d’andare incontro, il muoversi verso.
… ed è cercare la vita eterna.
E’ in questo “cercare” – cercare con fede e costanza la risposta ad un bisogno vitale – che è già la vita eterna, la vita eterna sin da ora.
La quale, quindi, non deve essere cercata per se stessa. La vita eterna sopraggiunge come data per giunta, per di più.
Non è detto infatti: Cercate in primo luogo la vita eterna, ed il regno con la sua giustizia vi sarà dato per sovrappiù. La vita eterna trae senso e giustificazione dal fatto che si cerca innanzi tutto il regno con la sua giustizia. 
Il cercare la vita eterna per se stessa, come sovrappiù della vita temporale, non è che cupiditas vivendi. Questo cercare non conduce certamente alla vita eterna. Non conduce a nulla. Al più ad una credenza, non ad una fede.
La vita eterna ha una sua ragione, ed essa è in quel cercare innanzi tutto – come cosa che sta in cima a tutto – la giustizia del regno. Anzi, in questo cercare, come abbiamo già detto, è già la vita eterna.
Che è data perché quel cercare abbia senso e sostanza. E già è in quel cercare : un cercare che è già un entrare nel regno e quindi nella vita eterna. La sete disseta l’assetato: l’assetato si disseta della sua stessa sete! 

Cercate dunque innanzi tutto il regno e la sua giustizia … Cercate cioè quello che non c’è ancora e di cui sentite la mancanza: che non è dato in nessun modo, né definito, né indefinito, che ha preso corpo o aspetto … Cercare quindi è anche scrutare e investigare, con spirito critico.
Chi è in un atteggiamento di ricerca si distingue da chi ritiene e dice di avere trovato, affermando: Il regno di Dio eccolo qui, oppure eccolo là.
Anche chi pretende di fare queste affermazioni è partito dall’assunto che il regno, con la sua giustizia, è un problema. E’ partito ed è anche arrivato, perché crede di averlo risolto e ce ne offre persino la formula: ecco il regno è questo qui.
Se questo fosse possibile, non avrebbe più ragione il cercare. Il quale invece non deve mai finire, se veramente è un cercare il regno di Dio.

Il Regno di Dio: come verrà ? 

Vi è quindi una ragione del fatto che Gesù nei Sinottici ci metta in guardia contro coloro che verranno e diranno: il regno di Dio eccolo qui o eccolo là. Il regno non viene in modo che si possa vedere. E quindi nemmeno indicare.
E allora che cosa pretendete di farci vedere? Che pretendete di mostrarci ? Di tali ce ne saranno, che con altro linguaggio, magari, pretenderanno di indicarci l’equivalente del regno e della sua giustizia.

Il regno verrà e sarà come la luce improvvisa di un lampo.
Sarà dunque cercato e mai trovato? (Nel significato oggettivo che ha il verbo trovare). O non saremo noi piuttosto ad essere “trovati” ?
Perché avverrà che noi ci troveremo dentro di esso, all’improvviso. Come dire che non saremo noi a scoprirlo, come provenendo dall’esterno: come si scopre un nuovo mondo.
Il regno ci sarà dato, non lo prenderemo. Ci sarà rivelato, non lo scopriremo. Potremo vederlo con i nostri occhi, non ci sarà indicato.
In una luce improvvisa. In una luce che non ha luce normale del giorno.
Non sarà uno dei “nostri giorni”, quello che verrà. Sarà il giorno di un Altro.

Gli antichi profeti, cui Gesù si ricollegava, avevano visto di lontano un “giorno del Signore” e avevano cercato anche di descriverlo, sia pur sommariamente. E si trattava per lo più di cose terrene, molto terrene. Gesù è molto più sobrio. E’ ben difficile infatti immaginare cosa sarà quel giorno: il suo compimento è cosa che riguarda Dio e la nostra immaginazione non potrebbe riempirlo che di cose umane, molto umane.
E’dinnanzi a Pilato – è ad un governatore di questa terra – che Gesù dice: “Il mio regno non è di questo mondo”. E lo dice due volte: “ ma ora il mio regno non è di qui” (Gv 18:36). Se fosse stato un regno di questo mondo, come sarebbe stato il regno di Dio ?
Gesù aveva un concetto tanto più alto del regno di Dio. E lo lasciava a Dio.

Nell’evangelo di Giovanni, Gesù lascia questo mondo. E lo lasciava agli uomini: di fatto, ed uomini come Pilato, governatore per autorità di Cesare; come tanti di questa specie, come ce ne erano allora nel mondo e ce ne sarebbero stati sempre, di simili a loro.
E il mondo sarebbe stato sempre loro e dei loro simili.
E’triste e può sinceramente dispiacere. Ma Gesù ha detto così. E difatti così è sempre stato, con ben rare varianti in meglio. Con questo non è detto che questo mondo lo lasciamo al diavolo. E nemmeno Gesù faceva così.
Il suo regno non era di questo mondo, non era di qui. Eppure diceva di essere re.
Se non era di questo mondo, ce n’è dunque un altro di cui egli è re ? A sentir lui, sì.
“… se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero … (Gv 18:36).
Nemmeno per lui ?!
Certo, se il suo regno non è di questo mondo: che cosa mai potrebbero fargli gli uomini, anche mettendolo in croce ?
Questo mondo è abbandonato alla contesa degli uomini. Come lui, i suoi non sono chiamati a combattere, a combattere contro Caifa o Pilato. Non è a questo genere di combattimento che sono chiamati.

Del regno non si può parlare se non per similitudini

Seguire questo Cristo, la Parola che si è fatta carne nell’uomo Gesù, e che per così breve tempo è stato con noi. In questa breve apparizione piena di luce, inserirsi. Il che significa camminare, come egli ha camminato.
Passando in questo mondo come egli vi è passato: non essendo di questo mondo, e quindi andando. Andando sapendo dove, come egli lo sapeva, e l’ha detto a noi.
Camminando in quella luce, mentre qui è ancora notte, è sempre notte.
Camminando, conosceremo che egli cammina con noi, al nostro fianco, nostro compagno di viaggio.
Egli è il viandante sempre vivente. Ed è camminando, che ci troveremo veramente uniti a lui.
Del regno di Dio, dice Gesù, che sapeva quel che diceva, si può parlare solo per similitudini.
Il regno è simile a …, il regno è come
E il simile, il come è un parziale e piccolo aspetto, un’ombra e un frammento, preso come indicazione di un tutto che come tale non può che restarci nascosto., se è il regno di Dio. Indefinibile, indicibile.
Qualcosa che assomiglia soltanto. E non viene offerto alla vista. Qualcosa da ricostruire dentro, come si può, con una specie d’immaginazione (cioè ancora per immagini / o d’intuizione, da intus ire), cioè con un movimento creativo ed interiormente. Ognuno come può: cioè mai oggettivamente.

Di che cosa parla dunque Gesù, con le sue similitudini o parabole, se non di qualcosa che per sua natura è a vasta trascendenza ? Trascendente rispetto a questo mondo che passa e per cui passiamo: sempre contradditorio ed ambiguo.
Trascendente rispetto a questa nostra natura umana, con la sua limitata capacità di intendere e realizzare.
Tutto quello che se ne può dire dunque è similitudine, metafora, immagine, parabola ... Mai definizione, dimostrazione o mappa.
E quel che se ne può realizzare è ancora non più che un segno, un frammento che allude ad un tutto, ad una pienezza che è sottratta alla vista ed è oltre la portata della nostra mano.
Una cosa parzialissima, modestissima. Come l’umile bicchiere d’acqua che si offre alla sete (altra immagine di cui Gesù si serve …).

Cercare e andare

Bisogna dunque andare e cercare, sospinti non da altro che dalla fame e dalla sete.
Cercare ciò che è risposta al bisogno e verso cui sospinge il bisogno.
Cercare quello che è dato per fede ed è sempre infinitamente oltre quel che possiamo attendere.
Per cui bisogna essere anche consapevoli della necessità della modestia, dell’umiltà, della prudenza.
Il regno dei cieli non sarà mai una ideologia.
La fede è come un istinto che ci muove verso ciò di cui sentiamo il bisogno.
Quindi partire, muoversi, andare: cercare.
Se non ci si muove e non si va non c’è cercare. Il cercare è altro.
E quello che si cerca c’è. C’è, anche se non si vede, non si tocca, non si può descrivere.
Che c’è lo dice la fede. Questa è la sua funzione.


NOMADISMO E INSEDIAMENTO
NELL’EBRAISMO E NEL CRISTIANESIMO

Nell’anima profonda dell’ebraismo e del popolo ebraico C’è una fondamentale contraddizione.
Sotto un certo aspetto il popolo ebraico è assillato dal bisogno di stabilità. Come tutti i gruppi semitici viene da mille anni di nomadismo e come questi cerca una terra in cui insediarsi in modo stabile e definitivo. Della “terra promessa” si è fatto un mito ed un articolo di fede.
Ma nella sua travagliata storia riemerge la memoria dell’esperienza nomade dei padri, assume l’aspetto quanto mai interessante di un’alternativa spirituale ad una religiosità fortemente stabilizzata ed istituzionalizzata, come è quella delle leggi di purità e della liturgia., del tempio e del sacerdozio, della città santa Gerusalemme!
Questa alternativa è stata la religiosità del profetismo, che si ricollega alla memoria storica delle esperienze del nomadismo.

Il cristianesimo è nato da un forte ritorno della spiritualità del profetismo, incarnato nell’insegnamento e sulla figura di Gesù di Nazareth. Con questo di nuovo: che questo ritorno alle origini è caratterizzato da uno sradicamento più o meno sostanziale e compiuto dalle radici ebraiche.
Con il fondatore ed i suoi apostoli si ripropone senza dubbio l’ideale del nomadismo: dell’essere in transito, del pellegrinaggio. Cui resiste – affermandosi purtroppo – l’ideale della stabilità, della sicurezza, del radicamento nel mondo, attraverso l’istituzione, il tempio, il sacerdozio.
Nella storia della chiesa cristiana riaffiora la vecchia contraddizione che distingueva la vita dell’Israele biblico.

Andare errando

Errare significa andare di luogo in luogo senza avere una meta.
Così fu per Israele. Il suo “nomadismo” non è quindi un ideale di vita da idealizzare.
Il nomadismo è una servitù. E’ lasciare un luogo dietro di sé perché non vi si può più stare, per varie ragioni. Per i nomadi allevatori di bestiame la ragione era quella di trovare nuovi pascoli.
Ad un certo momento Israele sentì di dover mutare vita. Cercò una terra in cui insediarsi.
“Il piede d’Israele non andrà più errando” (“Re 21:8)
“… io vado errando come pecora smarrita” (Sal. 119:176)
“… perché ci fai errare lungi dalle tue vie” (Isaia 63:17)
“… le mie pecore vanno errando” (Ezech. 34:6)
“… essi andavano errando tra le nazioni” (Osea 9:17)
“… mio padre era un Arameo errante” (Deut. 26:5)
“ … sempre erra il cuor loro” (Sal. 95:10)
“… noi eravamo erranti come pecore” (Isaia 53:6)
“… eravate erranti come pecore” (1Pt. 2:25)


L’ESSERE NOMADI

*(Il termine nomadi non è qui utilizzato dall'autore col significato di "nomadismo zingaro, rom o sinti", che rappresenta, viceversa, una precisa identità culturale e sociale di grande ricchezza - e quindi meglio sarebbe utilizzare "vita itinerante" - ma si riferisce a quel nomadismo che egli definisce "anonimo", cioè un vagabondare senza identità, senza radici, senza legami e senza motivazioni spirituali o culturali - Ndr)

Nomadi, oggi, si è o ci si sente.
Si è nomadi quando non c’è aderenza ad una terra di sostegno, abitata e strutturata in città, da cui si ricevono norme e mezzi di vita, e soprattutto senso del proprio essere ed esistere (un ubi consistam). In questo nostro mondo –soprattutto in questo nostro mondo occidentale – il nomadismo è fenomeno ormai di massa. C’è gente che di fatto, il più delle volte in perfetta coscienza, s’è lasciata alle spalle famiglia, patria, tradizioni, con tutto quello che ne proviene di buono e di cattivo, e procede nella vita a casaccio, senza norme, senza meta, senza senso. E’ un nomadismo che non ha alcuna qualificazione, cui non si s'addice alcun nome, un nomadismo “anonimo”.
E’ un nomadismo caratterizzato dalla mancanza completa di motivazioni. Anzi è questa a costituirne il carattere. L’andare per puro e semplice andare, senza alcun perché, senza alcun motivo. Se può a rigore chiamarsi un “andare”, questo andare a casaccio, dove capita, sotto la spinta di circostanze propriamente carnali e spesso sospinti dalla folla anonima che si muove alla cieca.

Questo genere di nomadismo fa di colui che vi si trova trascinato un essere senza identità. L’identità consiste nell’avere nome e cognome, abitare in un dato luogo, essere nato in e da, avere oltre che un sesso un rapporto con gli altri che è dato dall’essere coniugato o celibe, dall’avere una professione ed una nazionalità, oltre che un’età.
Quando tutto questo non significa niente, perché non ha rilevanza alcuna, non si può parlare di identità. L’identità è perduta.
Ma non ci sono solo quelli che di fatto sono nomadi: ci sono anche quelli che si sentono nomadi, che avvertono di trovarsi in una situazione di nomadismo: che molto spesso, addirittura, hanno scelto di essere nomadi.
Costoro si muovono semplicemente perché sono partiti: per non voler più stare, per fuggire da dove ci si è trovati senza sapere perché e ci si è scoperti estranei. E così si sono rotti i naturali e ricevuti legami con una famiglia, una patria, una tradizione, un tessuto etico e giuridico.
In questo caso, non essendoci identificazione, non c'è nemmeno identità. Anzi, c'è rifiuto d'identità: negazione, abolizione, ripudio e maledizione!

Partire... per andare dove? Il dove non importa, il dove non c'è. Quello che importa è il partire, il lasciare, il muovere da...
Certo per la voglia o il bisogno di un altro genere di identità: un'identità in cui sia nuovamente espresso il se stesso, un'identità autentica, purché effettivamente dica “chi si è”.
O semplicemente per una voglia confusa ed oscura di essere “altro”. Non si sa cosa, ma “altro”. In questo caso non si ha solo la fuga dalla casa paterna: c'è la fuga da sé, da un certo sé che ci ritroviamo ad essere, non scopriamo perché, e non riusciamo ad accettare.
Il sentirsi nomadi – l'aver sceltodi essere nomadi è qualcosa di più – può conciliare con il restare dove ci si trova. Restare nella famiglia, tra la gente in mezzo a cui si è nati. Restare nel proprio paese, nella propria città, nella propria patria. Ma sentendo che nulla ci è proprio. Sentendoci estranei a tutto.
Restando per forza maggiore. O per viltà?

Si può essere nomadi anche in questo modo. Nomadi perché si è partiti col sentimento, la testa, l'immaginazione. Ma restati, come estranei. Del nomade c'è solo l'estraneità ad un luogo. E' un modo di essere nomadi molto penoso. Potremmo dire miserabile.
Quando invece nomadi non ci si sente, ma lo si è nel senso che abbiamo visto – cioè senza motivo, senza bisogno, senza coscienza, anonimamente e in mucchio – allora ci si trova non solo ad andare randagi, ma ad un andare in terra arida ed ingrata. Un andare nel deserto.
C'è un rapporto tra nomadismo e deserto, che va indagato, perché appare piuttosto problematico.
I primissimi gruppi umani forse diventanonomadi. Perché non lavorano ancora la terra, ma vivendo di frutta e di caccia, ben presto rendendo inabitabile la terra in cui sono vissuti per un tempo e sono sospinti a cercarne altre da sfruttare. L'uomo rende la terra un “deserto” e diventa nomade. Ma a sua volta il nomadismo, specialmente quando compare, per necessità, la pastorizia, crea il deserto.

Questo va riconosciuto. Per capire il senso di nomadismo di cui stiamo parlando, a sua volta si muova in un deserto che esso stesso crea.
Il nomade incosciente di esserlo e senza vocazione, ha pur bisogno di vivere. Ma di quel che gli dà da vivere nelle sue continue soste, egli fa terra bruciata .egli consuma e distrugge la fertilità. Non solo rende tutto arido. Distrugge. Dove passa non nasce più niente. Spegne la vita.
L'uomo che oggi viene al mondo –in questo nostro mondo – si trova ad avere in mano una vita che gli appare come un'arruffata matassa, che non riesce a districare perché non gli riesce di trovarne il bandolo.
Così vede la propria vita il singolo: perché si ritrova iniziato in relazioni che gli appaiono confuse e di cui non vede la ragione. E così vede oltre di sé la società in cui si ritrova ad esistere: una società complessa, dalla struttura mastodontica, perennemente oscillante tra disordine ed imposizioni di ordine, tra problemi e soluzioni che producono altri problemi, tra arbitrio e necessità, anarchia e tirannide.
La società complessa è una società che come tale è malata, come patologico è il termitaio. E' una società in cui la pianta uomo degenera e muore per soffocamento.
La società in cui nasciamo, con questa sua complessità, è anche la società in cui come uomini siamo destinati a morire? Diventando cioè qualcosa di altro dall'uomo, se pur avrà possibile una sopravvivenza?


GESU’ HA UN LUOGO ?! FORSE UNA CHIESA ?

In tempi in cui il vero Gesù Cristo era stato perduto di vista, i cristiani hanno voluto dargli un luogo. Nella chiesa. Nella chiesa istituzionale e sacramentale, naturalmente. Equivocando la promessa fatta da Gesù ai discepoli che egli sarebbe stato sempre con loro. Con loro, certamente, ma come compagno del loro cammino e davanti a loro.
Anche prendendo la chiesa nel suo significato più generale, c’è da dubitare che Gesù ci si trovi bene. Quante volte in mezzo ai cristiani Gesù non c’è e non ci può essere. E c’è anche chi dice che non c’è affatto.
Figuriamoci se quel luogo che volevamo dargli poteva essere il tempio, con quello che egli pensava del tempio. Tutto Gesù può aver lasciato pensare di sé, meno che lo si sarebbe trovato in un luogo simile.
Hanno tentato di rinchiudervelo, in tanti modi, sotto tanti aspetti. Ne è sempre scappato, facendosi trovare altrove. Ovunque, meno che lì dentro. In un “sacramento dell’altare”. In realtà non c’è mai stato. La sua presenza è stata sempre una finzione.
Tutto quello che si è fatto per chiuderlo in un luogo, a disposizione di un sacerdozio, può solo costituire un esempio di come anche un insegnamento come quello di Gesù possa, nelle manipolazioni degli uomini, diventare il contrario.

Si è avuta una degenerazione anche del cristianesimo. Che cosa non si corrompe in questo mondo?
Maestro dove dimori? Maestro, dove vai?
Il ministero di Gesù comincia con la domanda che i primi discepoli gli rivolgono: “Maestro dove dimori ?”. E finisce in quella che i discepoli, nel commiato di fronte alla morte, gli fanno (Gv. 13:3b): Simon Pietro gli domandò: Signore, dove vai ?” E Gesù vorrebbe che tutti avessero il coraggio di chiedergli; Dove vai ? (16:5)
Gesù andava verso la morte e oltre la morte. Andava al Padre. Anzi: tornava al Padre, secondo le parole di Giovanni. Era venuto come luce in questo mondo. E portava luce anche in questa tenebra delle tenebre che è la morte.

Gesù quindi passava.
Ed è rimasto come l’immagine dell’uomo che passa. Passa attraverso questo spazio (né tanto, né poco), passa attraverso questo tempo (né tanto, né poco).
E’ l’uomo che passa e sa dove va. Questo è il punto.
Non è come Abramo, che ubbidisce alla parola di Dio che gli ordina di lasciare Ur dei Caldei, ma non sa dove andrà (verso quale “dove”).
Così chi lo segue: è un uomo che si è alzato e si è messo a camminare, perché ha deciso di andare. Ma non è che non sappia “dove”, come Abramo.
Quel Gesù Cristo che va verso un “dove” è ormai un punto di riferimento.
“Dove sarò io sarete anche voi …”
Non essere di questo mondo

Per cui se un Gesù può dire “io non sono di questo mondo …” chi lo segue può fargli eco: Nemmeno io … Non siamo di questo mondo. Ma c’è chi se ne accorge e chi no.
Chi lo scopre, è perché guarda a questo Gesù Cristo. Accettarlo, accoglierlo, significa sentirsi straniero (“non di questo mondo) e in cammino verso quell’altrove di Cristo (“pellegrino”). Significa mettersi fuori. “Usciamo fuori dal campo, portando il vituperio di Cristo”.
Chi cammina lentamente, chi arriva dopo e dietro gli altri, a distanza, più cautamente dice: “ Sono di questo mondo, ma non solo di questo mondo”. Dentro e fuori.
Ma c’è anche chi dice, e lo vuole dire: “E io voglio restare in questo mondo, finché posso. Sono figlio di questa Madre Terra: non voglio essere bastardo. Voi andate pure:io resto”.
Bastardo ? Ma chi non si sente più figlio della terra, sente così perché ha trovato un Padre. Purtroppo non abbiamo anche una Madre. Non sarebbe che un idolo.

“Maestro, dove dimori ?”
“Venite e vedete” (Gv. 1:38-39).
Un invito promettente.
Ma la domanda finale, “Dove vai ?” è una domanda matura, frutto dell’esperienza, che non poteva essere posta al principio.


© Ugo Gastaldi

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