8.9.15





Carissimi amici,  proponiamo alla vostra lettura e riflessione questo interessante Articolo pubblicato su:


L’autore

Il Prof Christopher Marshall ricopre la Cattedra “Unwin Diana” di Giustizia Riparativa alla School of Government presso la Victoria University di Wellington, Nuova Zelanda. Si è specializzato in teologia ed etica del Nuovo Testamento, teologia e pratica della pace e in giustizia riparativa (teoria e pratica). E’ un esperto nello studio della teologia anabattista contemporanea. Tra i suoi libri segnaliamo Beyond Retribution: A New Testament Vision for Justice, Crime and Punishment and Compassionate Justice: An Interdisciplinary Dialogue with Two Gospel Parables on Law, Crime, and Restorative Justice”.

–  Ringraziamo Domenico Bevilacqua per la traduzione italiana. 


Prof. Christopher Marshall

UN PROFETA DELLA GIUSTIZIA DI DIO:
GESU' POLITICO




INTRODUZIONE


 In questo articolo, voglio proporvi una valutazione di alcuni dei temi politici che emergono nei racconti evangelici del ministero di Gesù. La mia tesi, radicalmente semplice (così come semplicemente radicale), è che Gesù era una figura apertamente politica, che aveva una piattaforma politica identificabile, e che i valori politici, gli impegni e le priorità che vediamo espressi nel suo insegnamento e prassi dovrebbe svolgere un ruolo determinante nel plasmare e dirigere tutto il successivo impegno cristiano nel processo politico.

Pertanto, la proposta in sé è abbastanza semplice. Ma è anche, in verità, piuttosto radicale. È radicale perché contraddice la visione convenzionale di Gesù come figura completamente apolitica, una persona che non nutriva alcun interesse, e forse aveva anche un’antipatia, verso l’attività politica. Secondo la concezione usuale, Gesù venne come un salvatore spirituale, non un attivista politico. Ha proclamato un regno celeste, non un regno mondano. Si preoccupava della salvezza delle anime, non della trasformazione della società. Richiese una giustizia personale, non un cambiamento politico. Egli potrebbe anche aver avuto una teologia (dopo tutto parlò molto di Dio), e forse anche un’etica (considerando il Discorso della Montagna), ma certamente non ebbe una politica (non ebbe nulla da dire sul ruolo dello Stato, e poco di più sullo stato della società).

Tutti abbiamo familiarità con questo modo di pensare. È dato per scontato da molti cristiani sinceri, soprattutto nelle chiese conservatrici, ed è profondamente radicato anche nell’immaginario popolare. Un Gesù non-politico è stato, per molto tempo, uno dei principi fondamentali sia della pietà cristiana sia di una buona parte dei normali studi biblici. Tanto i predicatori quanto gli studiosi hanno ritenuto esservi stato un divorzio quasi totale tra gli obiettivi di Gesù e le questioni politiche concrete del suo tempo. Non sorprende, quindi, che molte persone oggi rimarrebbero perplesse, o decisamente a disagio, di fronte a una qualsiasi discussione di un Gesù politico.

Ma è credibile, storicamente (o persino teologicamente), un Gesù non politico? È davvero possibile isolare Gesù dai problemi sociali e politici del suo tempo? È vero che le narrazioni evangeliche lo fanno? Se il regno di Dio che Gesù ha proclamato non aveva nulla a che fare con i regni di questo mondo, perché i governanti mondani del suo tempo cospirarono per ucciderlo? Come potrebbe Gesù pretendere di essere il Messia reale tanto atteso dal popolo ebraico senza dover fare i conti con le implicazioni politiche e militari di quel ruolo? Era Gesù l’unico insegnante ebreo palestinese del suo tempo non influenzato dalle intense sofferenze del suo popolo che languiva sotto la dominazione imperiale romana ed indifferente alle loro aspirazioni alla liberazione nazionale? E perché mai i romani avrebbero dovuto condannare Gesù a morte per crocifissione – una forma di esecuzione utilizzata principalmente per intimidire i ribelli delle Province e scoraggiare la resistenza al dominio imperiale – se Egli fosse stato solo un’innocua guida spirituale ultraterrena che non rappresentava alcuna minaccia reale per il dominio di Cesare? Può la morte di Gesù essere spiegata in maniera convincente senza prendere in considerazione la sua rilevanza politica percepita?

Ovviamente no, come un crescente numero di studiosi di Gesù ora riconosce. Innegabilmente, nel tentativo di rendere conto del Gesù storico, diversi studiosi ora si appellano al cosiddetto “criterio di crucifibilità”. Con questo, essi voglio affermare che nessuna ricostruzione presunta della vita e del ministero di Gesù può pretendere di essere storicamente plausibile se non spiega adeguatamente perché Lui finì a soffrire la pena politicamente espressiva della crocifissione. Poiché la crocifissione era riservata principalmente agli schiavi ed ai ribelli dei popoli assogettati, il fatto che Gesù abbia conosciuto una tale sorte deve sicuramente indicare che i romani lo consideravano in qualche modo un insurrezionalista. Il fallimento, di vecchia data, degli interpreti cristiani nel fare sufficientemente i conti con questo fatto brutale tradisce, si potrebbe sospettare, non solo una mancanza di immaginazione storica, ma anche un istintivo antigiudaismo (l’incapacità di prendere sul serio il ruolo di Gesù come profeta ebreo del primo secolo) come pure un Docetismo incipiente (l’incapacità di prendere sul serio la piena umanità di Cristo e la situazionalità storica dell’incarnazione).

C’è anche una seconda ragione per cui la mia tesi sulla politica di Gesù è più radicale di quanto possa apparire. Proporre, come ho fatto io, che i valori politici e le priorità evidenti nelle parole e nelle azioni di Gesù dovrebbero esercitare autorità normativa per la successiva attività politica cristiana è radicale perché fa a pugni con il modo in cui la Chiesa cristiana tradizionale ha essa stessa esercitato il potere politico e l’influenza durante gran parte della sua storia, almeno a partire dai tempi di Costantino. Come vedremo, nei propri insegnamenti e nelle proprie azioni, Gesù ha dimostrato una netta alternativa alle pratiche politiche spietate e coercitive dell’impero romano e dei suoi alleati governanti ebrei ed erodiani, e ha pagato il prezzo più alto per averlo fatto. Fortunatamente la visione politica alternativa di Gesù è stata rivendicata da Dio attraverso la sua risurrezione dai morti e, successivamente, dalla rapida diffusione di comunità di suoi seguaci in tutto il mondo che professavano fedeltà alla signoria di Cristo, piuttosto che alla signoria di Cesare. [1a]

Ma col tempo l’impero colpì di nuovo. Non essendo riuscito a reprimere il movimento cristiano con la forza, scelse di cooptarlo. Il cristianesimo divenne religione di Stato. Il profeta ebreo anticonformista che aveva ispirato questo nuovo movimento religioso fu sempre più dimenticato, o piuttosto trasposto in un signore imperiale celeste che, da un lato, assicurava la salvezza eterna per i fedeli per mezzo dei meriti della sua morte e risurrezione e, dall’altro, autorizzava l’impero esistente a portare avanti le proprie politiche come prima, anche se con alcune modifiche. Non passò molto tempo prima che la chiesa istituzionale iniziasse a replicare, nella propria vita e nel proprio comportamento le strutture gerarchiche e gli istinti coercitivi del più ampio ordine imperiale, bramando prestigio ed onore per i suoi vescovi e religiosi e promuovendo il proprio interesse sulla terra per mezzo di una combinazione perniciosa di coercizione ed incentivi (carota e bastone). [2a]

In questo nuovo scenario della Cristianità, per essere un Cristiano non è più richiesto, almeno per la maggior parte dei credenti, e certamente non per coloro che occupano posizioni di autorità, alcun impegno coscienzioso nelle politiche egualitarie e di pacificazione di Gesù di Nazareth. Viene semplicemente richiesta la fortuna di essere nati nell’impero Cristiano ed il buon senso di aderire alla fede Cristiana ortodossa. Nell’ortodossia Cristiana, la figura di Cristo arrivò a funzionare più come l’anello centrale nella dottrina della salvezza che come un paradigma significativo per i valori e la prassi Cristiani. Significativamente, tutti i credi storici della chiesa tacciono sia sull’etica in generale sia, in particolare sulle rigide richieste etiche di Gesù. Probabilmente è questa omissione che ha permesso storicamente alla chiesa di portare il nome di Cristo a fare nel contempo il lavoro del diavolo. Nell’interesse dell’ortodossia dottrinale, la Chiesa ha sollevato eserciti e mosso guerre, torturato gli eretici e bruciato le streghe, perseguitato i dissidenti e costretto a conversioni. Essa è stata in grado di farlo solo perché prima aveva depoliticizzato l’insegnamento e l’esempio di Gesù; aveva messo a tacere la voce profetica che un tempo aveva inveito contro l’oppressione e la dominazione gerarchica.

...un numero deludente di nostri pastori, vescovi ed educatori teologici, per non parlare dei nostri politici, sono ancora inquietantemente sordi alle dimensioni politiche della predicazione e della pratica di Gesù. "


Per fortuna la Chiesa non brucia più le streghe o dispiega i propri eserciti. Ma, la maggior parte di coloro che si professano cristiani, ed un numero deludente di nostri pastori, vescovi ed educatori teologici, per non parlare dei nostri politici, sono ancora inquietantemente sordi alle dimensioni politiche della predicazione e della pratica di Gesù, ed alle sue implicazioni di vasta portata per modellare oggi un’autentica testimonianza politica Cristiana. Ma perché accade questo? Perché i comuni lettori moderni dei vangeli non comprendono, ancora completamente, le implicazioni politiche dell’annuncio di Gesù? E perché oggi la voce cristiana nelle pubbliche piazze è così spesso priva di qualsiasi ancoraggio alla storia di Gesù, esplicita o implicita, consentendo in tal modo a fonti di autorità alternative, come i valori conservatori e la moralità della classe media, di riempire questo vuoto? Da dove viene questo Gesù depoliticizzato ?



LA DEPOLITICIZZAZIONE DI GESÙ 

Ci sono, credo, cinque fattori principali che hanno permesso, e continuano a perpetuare, la profonda depoliticizzazione di Gesù che prevale oggi, sia all’interno della chiesa sia al di fuori.

1. Politica antica e moderna: 

La prima, e più determinante, ragione per la quale i cristiani moderni non riescono a notare il carattere politico delle attività di Gesù è che operano con una concezione molto ristretta di ciò che costituisce l’attività “politica”. Ci avviciniamo al Nuovo Testamento con in mente la moderna dicotomia tra Stato e Chiesa, e pensiamo alla politica in termini di scienza e arte del governare, il concreto funzionamento dei meccanismi istituzionali centralizzati per il funzionamento della società. Poiché Gesù non formò un partito politico né si candidò per avere un posto nel Sinedrio, giacché non aveva formalizzato un progetto di società o teorizzato sulla natura delle istituzioni sociali o economiche, i lettori moderni concludono rapidamente che egli era un maestro spirituale apolitico che si teneva in disparte di fronte alla sordida realtà della vita politica. Egli accettò che le persone dovessero a Cesare i doveri connessi alla buona cittadinanza, la sua vera preoccupazione era che i suoi ascoltatori rendessero a Dio ciò che era di Dio, vale a dire il loro amore incondizionato e la loro devozione spirituale.

Da ciò ne consegue che il conflitto in cui Gesù è costantemente coinvolto nei Vangeli viene visto come conflitto religioso con i leader religiosi su questioni religiose, non come conflitto con i leader politici su questioni politiche. Gesù è visto soprattutto come un riformatore religioso che provocò la prevedibile ostilità delle istituzioni religiose per le sue nuove idee religiose. Questo va di pari passo con la presunzione che sono l’identità etnica e le convinzioni religiose degli ascoltatori di Gesù ad essere le cose più importanti per la comprensione dell’interazione di Gesù medesimo con loro, molto più che le enormi disparità sociali, economiche e politiche che esistevano tra di loro. I contemporanei di Gesù sono tutti ammassati insieme come “giudei” che hanno aderito alla religione del ’“Giudaismo”. Tutte le altre differenze tra loro, in termini di posizione sociale e di esperienza storica, sono considerate secondarie o addirittura irrilevanti per apprezzare la spinta del messaggio di Gesù e l’obiettivo della sua missione.

Ma tutto questo è molto discutibile. È palesemente anacronistico proiettare sull’antica società ebraica (o su qualsiasi altra società tradizionale, se è per questo) la distinzione Occidentale moderna tra Stato e Chiesa. Religione, politica ed economia formavano un’unità indivisibile nella Palestina Giudea e, anzi, nell’antichità in generale. I capi religiosi del tempo di Gesù esercitavano anche il controllo politico, con l’accesso ai corridoi del potere determinato dalla ricchezza personale e dalla pretesa ereditaria e, quindi, aperto a solo una minuscola élite. La legge di Mosè era la legge del Paese e il Sinedrio, presieduto dal sommo sacerdote, era il principale braccio del governo nazionale. Il Tempio era il centro dell’autorità spirituale e civile, così come  la potenza economica di Gerusalemme ed una causa di enorme difficoltà economica per la gente comune. Fu anche l’istituzione primaria per conferire legittimità agli alti sacerdoti governanti come clienti di Roma che, a loro volta, erano infine responsabili verso il procuratore romano.

Da ciò ne consegue che il conflitto di Gesù con le autorità degli scribi e dei sacerdoti, che incombe con tale prominenza nei racconti evangelici, era al tempo stesso un conflitto con i responsabili politici della nazione, così come con quelli che controllavano la maggior parte della ricchezza della nazione, molta della quale era stata espropriata ai contadini.Come sottolinea Richard Horsley, la divisione principale nella Palestina del primo secolo non era una tra scuole di interpretazione teologica finemente sfumate, ma tra governanti e governati, tra la piccola minoranza di ricchi detentori del potere con i loro servitori e la stragrande maggioranza della gente comune, che era tipicamente indebitata e sempre vulnerabile agli abusi. [3a]
I Vangeli rendono chiaro che era verso quest’ultimo gruppo che Gesù principalmente diresse la sua missione. Fu un uditorio che, a causa della proprio condizione di grave oppressione, era già fortemente politicizzato; era perennemente soggetto a tensioni sociali ed un terreno di reclutamento fertile per i tanti movimenti popolari di protesta e di rivolta che sorsero nella Palestina Giudaica durante il periodo romano. Immaginare, poi, che Gesù potesse indirizzare il messaggio di liberazione del regno di Dio (in sé stesso una categoria politica) a questo gruppo di sfruttati ed oppressi senza impegnarsi in tal modo nell’attività politica, ed una politica del genere più sovversivo, significa non riuscire a fare i conti con il contenuto semantico del linguaggio di Gesù e le concrete realtà socio-politiche del periodo.

È vero, naturalmente, che Gesù non speculò sulle strutture della società umana alla maniera di un filosofo greco o di un moderno decisore politico. Egli era un profeta, non un filosofo. Né stese un piano generale per il funzionamento delle istituzioni sociali. Se lo avesse fatto, sarebbe da tempo diventato obsoleto e irrilevante. Ma questo non vuol dire che Egli fosse indifferente agli affari politici. La politica concerne essenzialmente l’esercizio del potere – sociale, economico, culturale, religioso e del potere coercitivo – nella polis, nella società, e su queste cose, come vedremo, Gesù aveva molto da dire.

Inoltre, le ramificazioni politiche di ciò che insegnava e praticava non sfuggirono ai suoi avversari. Il messaggio e lo stile di vita di Gesù, il suo disprezzo per certe tradizioni e costumi, la sua accentuazione degli imperativi centrali di giustizia della Torah, la misericordia e la fedeltà, la sua pretesa di autorità divina sui poteri malvagi che opprimevano il popolo di Dio, la sua azione prepotente nel perimetro Tempio, la sua frequentazione con peccatori emarginati, e molto altro, vennero percepiti dai suoi nemici come una sfida per gli stessi fondamenti della società giudaica e, in ultima analisi, per la pace provinciale romana. [4a]
Non è sorprendente quindi che i più antagonisti dell’articolazione di Gesù del governo di Dio fossero coloro in posizioni di potere religioso, politico e militare nelle istituzioni di potere di Israele, sia giudei sia romani. Costoro avevano un interesse personale nella maniera in cui le cose andavano ed avevano più da perdere dalla domanda di Gesù di riordino delle relazioni personali e sociali in conformità con la volontà escatologica di Dio [5a].

2. La griglia interpretativa dell’individualismo post-illuminista: 

Un secondo fattore che perpetua le letture apolitiche della storia di Gesù è l’influenza distorsiva dell’individualismo occidentale. Gli interpreti moderni tendono a considerare Gesù come una figura solitaria che interagì con altri individui indipendenti su una base uno-a-uno. Egli non si impegnò con gruppi civici o istituzioni politiche o reti sociali, ma solo con individui ricettivi (o talvolta ostili), chiamandoli alla conversione personale ed al rinnovamento spirituale.
Ora, è palesemente vero che Gesù interagì con personalità individuali, come Nicodemo e Giairo, Bartimeo e il centurione romano, il Geraseno indemoniato e la donna al pozzo, e mostrò un sorprendente rispetto della coscienza e della scelta individuale. È anche vero che richiese ad un selezionato gruppo di suoi seguaci la volontà di subordinare le responsabilità della vita familiare alle esigenze più urgenti di estendere il suo messaggio agli altri. Alcuni individui dovettero abbandonare case ed imprese, e rinunciare ad obblighi verso i genitori e le comunità locali, al fine di unirsi a Gesù nel suo ministero di predicazione itinerante. [6a] In questo senso Gesù dà priorità alla responsabilità individuale rispetto agli obblighi della convenzione sociale. Ma sarebbe un grave errore concludere da questo che Gesù fosse solo preoccupato del benessere spirituale dell'individuio e che incoraggiò la disintegrazione della vita comunitaria, distaccando le persone in modo permanente dal loro ambiente sociale.

È fondamentale riconoscere che, nella società giudaica pre-moderna, l’identità individuale aveva un carattere intrinsecamente relazionale. Le persone derivavano il loro senso di individualità, stima personale e benessere dalla loro partecipazione a più ampie reti sociali, in particolare quelle centrate sulla famiglia estesa e sulla comunità del villaggio locale.
L’individualismo occidentale favorisce l’inganno che la personalità umana e la realizzazione sono in qualche modo inerenti negli individui come agenti autonomi, a ruota libera ed auto-coscienti. Gli antichi lo sapevano bene. Nessuna persona è un’isola; l’umanità richiede co-umanità; la conoscenza di sé deriva dalla comunione con gli altri. [7a]
La ​​realtà è che le vite delle persone sono sempre inserite nelle reti sociali ed in tradizioni culturali condivise. Stando così le cose, sarebbe stato impossibile per Gesù affrontare le circostanze degli individui senza al tempo stesso toccare il carattere delle comunità cui appartenevano che erano, a loro volta, profondamente colpite dai modelli più ampi di dominazione coloniale e di sfruttamento.
Vale la pena osservare che, anche quando Gesù interagiva con singole figure, lo faceva di solito in uno spazio pubblico, sotto l'attenzione delle “folle”. Quando Gesù visitava città e villaggi per insegnare e guarire, di solito andava alla sinagoga dove l’intera popolazione villaggio si sarebbe riunita. Le sinagoghe nel primo secolo non erano solo istituzioni religiose; erano anche luoghi in cui si svolgeva l’educazione della comunità, la discussione ed il processo decisionale. Erano assemblee locali in cui le comunità di villaggio più o meno autogovernate della Galilea e della Giudea gestivano i propri affari. In quanto tali, erano entità quasi-politiche e, nel visitarle, «Gesù era più simile ad un politico durante la campagna elettorale che ad un maestro di scuola [...] più un drammaturgo sovversivo che un attore». [8a]

3. Strategie di lettura frammentaria:

Un terzo fattore che contribuisce alla prevalente depoliticizzazione di Gesù sono le strategie di lettura atomistica utilizzate da lettori e da interpreti del Vangelo. Tutta l’attenzione viene focalizzata su detti isolati di Gesù o su singole storie di miracoli o sul significato di particolari parabole, tenendo in poca considerazione come queste singole voci s’inseriscono nella più grande storia che viene raccontata dagli evangelisti od il modo in cui riflettono le realtà economiche e socio-politiche del mondo del primo secolo in cui è ambientata la storia. Questo metodo frammentario è comune tanto agli approcci popolari ai vangeli quanto a quelli accademici. A livello popolare, la maggior parte della predicazione e della lettura devozionale dei Vangeli si concentra su piccole porzioni di testo separate dalla più larga impostazione narrativa. Allo stesso modo, i lezionari di chiesa, benché strumenti molto antichi e utili per impegnarsi all’intera testimonianza della Scrittura, rendono ancora una virtù il rompere il Vangelo in racconti, fino a giungere a piccole unità, distribuendoli poi durante tutto l’arco dell’anno. Più preoccupante è, però, quello che fanno molti critici del Vangelo. In nome del rigoroso metodo storico, gli studiosi critici applicano prove “scientifiche” di autenticità al Gesù-tradizione per ricavare il materiale che può essere considerato come storicamente attendibile. La quantità limitata di dati estratti con questo metodo di solito è prevalentemente composta dal materiale dei detti – cose che Gesù disse più che cose che Gesù fece – in quanto è molto più difficile convalidare la storicità dei racconti in terza persona che sono pieni di caratteristiche fantastiche e chiaramente servono come propaganda Cristiana. La collezione risultante di detti e parabole “autentici” viene poi trattata come depositi di significato a sé stanti, indipendentemente dal contesto letterario o storico in cui si verificano nella tradizione evangelica.I problemi con questo approccio sono molteplici, non ultima l’inevitabilmente riduzione di Gesù ad una “testa parlante” destoricizzata, come qualcuno che si libra serenamente sopra le circostanze banali della vita ordinaria e comunica intuizioni morali e spirituali in forma di aforismi, proverbi e parabole decontestualizzati, o tramite l’occasionale atto eclatante. Ma nessun vero essere umano comunica mai in quel modo. Nessuno limita il proprio discorso a brevi frasi o brevi motti ad effetto scollegati da situazioni specifiche e scollegati da rapporti umani in corso, o sganciati da tradizioni, esperienze e significati condivisi del loro pubblico.

Cercare di capire il significato delle parole e delle azioni di Gesù senza riferimento alle circostanze sociali e politiche concrete delle effettive comunità giudee sotto il dominio romano, è come cercare di capire i sermoni ed i discorsi di Martin Luther King senza riferimento alla amara eredità della schiavitù americana, alle ingiustizie della segregazione, ed alle lotte del movimento dei diritti civili [1b].
L’unico modo, quindi, per rendere giustizia alle singole parole ed azioni di Gesù è sempre quello di vederle nel contesto della più grande narrativa evangelica della sua vita e missione, radicata come è e come Gesù stesso storicamente era, nel mondo reale della vita della Palestina coloniale, in cui movimenti profetici e messianici di liberazione spuntavano costantemente.

4. Gesù il profeta: 

Più volte ho fatto riferimento a Gesù come profeta giudeo. Non vi può essere dubbio che gli scrittori evangelici presentano Gesù in questi termini [2b], e in un buon numero delle sue proprie parole Gesù si riferisce a se stesso come profeta [3b] I suoi ripetuti avvertimenti di imminente giudizio sulla nazione e sui suoi governanti sono anche la prova del personaggio profetico di Gesù [4b]. È precisamente nella sua veste di profeta che Gesù esercita un ruolo così politicamente carico. Più o meno lo stesso si può dire per la sua identità messianica. È estremamente probabile che Gesù vedesse se stesso come il messia atteso da Israele, anche se era decisamente cauto nell’utilizzare il titolo stesso, e fu indiscutibilmente condannato a morte da Pilato come un pretendente messianico [5b]. Pretendere di essere il messia era affermare una funzione politica, dal momento che l’aspettativa più comune dalla venuta del Messia era quella di un guerriero principesco che avrebbe sconfitto i nemici di Dio, ristabilito il trono di Davide e guidato Israele alla sovranità universale sulle nazioni.

Eppure c’è stata una curiosa riluttanza, tra gli interpreti cristiani, a prendere sul serio l’importanza profetica e messianica di Gesù. Questa riluttanza ha di nuovo espressioni sia popolari sia accademiche. Ad un livello teologico popolare, è la divinità di Gesù che di solito riduce le sue credenziali profetiche. Gesù non era solo un profeta, gli apologeti cristiani (giustamente) insistono, egli era il Figlio di Dio incarnato, un essere divino, non solo un essere umano. Giudei e musulmani possono onorare Gesù come un profeta ma, esortano (giustamente) gli apologeti, noi cristiani lo conosciamo come unigenito Figlio di Dio.

A livello accademico, è l’autocoscienza messianica di Gesù che è più contestata. Molti critici del Vangelo sono convinti che Gesù vedesse se stesso come un messia e, mentre gli possono consentire di utilizzare l’etichetta di profeta in vece della precedente, anche tale identità è spogliata di gran parte del suo contenuto politico. C’è persino un filone di studiosi americani che ha ormai ulteriormente retrocesso Gesù dallo status di profeta a quello di saggio contadino o insegnante di saggezza o filosofo cinico [6b]. Questi studiosi, reagendo negativamente alle fantasie apocalittiche del fondamentalismo americano, spogliano la predicazione di Gesù da ogni traccia di giudizio apocalittico, lasciando dietro di sé un innocuo vate errante che viaggiava per la campagna “insegnando uno stile di vita alternativo tipo hippie ad un gruppo di nullità senza radici” [7b]. Per quale motivo qualcuno, Pilato meno di tutti, volesse crocifiggere una persona del genere è difficile da immaginare.

Ma le prove che Gesù si considerasse un profeta, e fosse considerato come tale dai suoi contemporanei, sono schiaccianti. È vero che i suoi più stretti seguaci arrivarono presto a considerarlo molto di più che un profeta [8b], ma non lo videro mai di meno, ed è stato nella forma base di un profeta che Gesù ebbe il suo impatto politico più decisivo. “Profeta” era una categoria fluida ai tempi di Gesù, che abbracciava una grande diversità di funzioni ed accentuazioni [9b]. Alcuni profeti erano figure clericali ed istituzionali, altri erano tipi più accademici; alcuni erano lupi solitari che consegnavano oracoli di giudizio o di liberazione, altri erano leader popolari di movimenti di massa che modellavano se stessi sulle grandi figure profetiche del passato, come Mosè, Giosuè ed Elia, e che proclamavano l’intervento imminente di Dio per portare la liberazione dalla servitù romana e dall’idolatria. Gesù si adatta meglio in quest’ultima categoria di un profeta popolare a capo di un movimento proletario di liberazione e di rinnovamento, centrato su una comprensione distintiva del regno di Dio e delle sue implicazioni. Distintivo certamente lo era, specialmente nella sua rinuncia all’odio ed alla violenza verso il nemico, ma non era apolitico, perché, come osserva Wright, “chiunque stesse annunciando il Regno di Dio ... si stava impegnando in un’attività politica. La domanda è, piuttosto, che tipo di politica stavano intraprendendo, e in vista di quale fine” [10b].

5. Un regno non di questo mondo: 

I quattro fattori che ho discusso finora e che sono serviti a depoliticizzare Gesù – la separazione spuria tra religione e politica, la griglia deformante dell’individualismo occidentale, la frammentazione del racconto evangelico in pezzi isolati e il disagio con la funzione profetica o messianica di Gesù – tutto viene al pettine nell’esposizione reale del testo. Coloro che non solo non colgono, ma decisamente si oppongono all’idea di un Gesù politicamente impegnato citano due testi, in particolare, come prova che Gesù non era molto interessato a questioni politiche. Il primo è la risposta di Gesù alla domanda di Pilato sul fatto che considerasse se stesso il re dei Giudei

Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?» Gesù gli rispose: «Dici questo di tuo, oppure altri te l’hanno detto di me?» Pilato gli rispose: «Sono io forse Giudeo? La tua nazione e i capi dei sacerdoti ti hanno messo nelle mie mani; che cosa hai fatto?» Gesù rispose: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui». Allora Pilato gli disse: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù rispose: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». Pilato gli disse: «Che cos’è verità?» E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo colpa in lui. (Giovanni 18:33-38)

Questo testo più di ogni altro è stato utilizzato dagli interpreti conservatori per incoraggiare il quietismo cristiano ed il disimpegno da questioni politiche o di giustizia sociale, dal momento che il regno che Gesù proclama “non è di questo mondo… non è di qui”. È un regno celestiale, non terreno. Il secondo testo viene dal cosiddetto brano della Domanda del Tributo, dove a Gesù è chiesto direttamente se sia accettabile sostenere il regime di Cesare attraverso il pagamento delle imposte.

Gli mandarono alcuni farisei ed erodiani per coglierlo in fallo con una domanda. Essi andarono da lui e gli dissero: «Maestro, noi sappiamo che tu sei sincero, e che non hai riguardi per nessuno, perché non badi all'apparenza delle persone, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare? Dobbiamo darlo o non darlo?» Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: «Perché mi tentate? Portatemi un denaro, ché io lo veda». Essi glielo portarono ed egli disse loro: «Di chi è questa effigie e questa iscrizione?» Essi gli dissero: «Di Cesare». Allora Gesù disse loro: «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Ed essi si meravigliarono di lui.(Marco 12:13-17)

In base a questo testo, e a una sua interpretazione completamente funesta, è stata costruita la teologia dei “due regni" secondo la quale si ritiene che lo Stato ha l’incaricato legittimo degli affari sociali e politici, mentre la chiesa ha il controllo delle questioni spirituali e religiose. 
I cristiani devono quindi essere buoni ed obbedienti cittadini nella società, in riconoscimento della legittima autorità di Cesare, ma dovrebbero concentrare la maggior parte delle loro energie a sviluppare il loro rapporto con Dio e servire la Chiesa, lasciando gli affari terreni a coloro che Dio ha nominato a governare. Non sarebbe esagerato dire che senza questa lettura delle famose parole di Gesù “dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, rafforzata dalla chiamata di Paolo alla sottomissione cristiana alle autorità di governo in Romani 13:1-6, l’olocausto nazista non sarebbe potuto accadere.

“Non sarebbe azzardato dire che senza [la comune] 
lettura delle famose parole di Gesù ‘dare a Cesare…. 
rafforzate dalle parole di Paolo… in Romani 13:1-6, 
l’olocausto nazista non sarebbe mai potuto accadere”

Non c’è tempo, qui, di interpretare nessuno di questi due passaggi in dettaglio [11b]. Basti dire che le familiari letture di entrambi i testi sono pericolosamente fuorvianti. Anche nel contesto del Vangelo di Giovanni – il più “spirituale” di tutti i Vangeli – il detto di Gesù “il mio regno non è di questo mondo” non può essere preso come affermazione che il regno di Dio sia una realtà puramente spirituale, estranea alla realtà mondane. Dopo tutto, è stato per amore di questo mondo che Dio ha mandato Cristo nel mondo, in primo luogo, in modo che “il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Giovanni 3:16-17). Il termine “regno” qui, come sempre nella tradizione biblica, ha la forza attiva di “regola” o “regalità” o “potere” più che di luogo o territorio o regno, in modo che quello che Gesù sta veramente dicendo è che il suo stile di esercitare l’autorità regale è dissimile da quella di altri re. Il suo regno si conforma non con il dominio brutale e coercitivo di Erode o Cesare o Caifa, ma con il compassionevole dominio di guarigione di Dio. Esso non si basa sulla coercizione violenta ma sulla persuasione amorevole.

È per questo che nella seconda parte del verso, che non viene quasi mai citata dagli apologeti conservatori, Gesù spiega che “se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei”. La cosa che più differenzia regalità di Gesù dalle forme mondane di regalità è la sua non-violenza. La sua autorità “non è di qui” – non è modellata da considerazioni di realpolitik [12b]. Se così fosse, i suoi seguaci avrebbero lanciato una campagna violenta per impadronirsi di Gerusalemme e collocarlo sul trono. Invece il regno di Dio esercita il suo potere con mezzi pacifici. È ancora una realtà politica (riguarda ancora il potere), ma incarna la politica di pace, non la politica di conquista.

La risposta di Gesù alla domanda sul tributo, punta nella stessa direzione. I nemici di Gesù cercano di intrappolarlo con una domanda da paradosso del Comma 22 [13b]: “È lecito per noi a pagare il tributo a Cesare, o no?” Sia coloro che interrogavano Gesù sia lo stesso Gesù sapevano bene che, secondo la legge di Dio, era illegale offrono omaggio ad un sovrano pagano che in maniera blasfema sostenesse la sovranità universale per se stesso. Nella memoria recente, i radicali giudei erano andati a morti orribili per il loro rifiuto di pagare il tributo a Cesare, in nome del primo comandamento: “Non avrai altri dèi di fronte a me”. Ma entrambe le parti sapevano anche bene che, secondo il diritto romano, era obbligatorio pagare le tasse e tributi per l’imperio. Così Gesù era intrappolato. Se avesse approvato la tassazione, sarebbe stato in aperta violazione della Torah, almeno agli occhi dei fedeli. Se si fosse opposto alla tassazione, avrebbe sfidato Roma ed avrebbe anche potuto pagare per questo con la vita.

In una brillante replica, Gesù elude la trappola lasciando il cerino acceso in mano ai suoi avversari. Prima chiede ai suoi inquisitori di mostrargli un denaro, la moneta romana utilizzata per il pagamento dei tributi. Il fatto stesso che essi possano produrre così rapidamente una moneta espone la falsità della loro richiesta; poiché lo stesso possesso di valuta estera confermava che i suoi interlocutori avevano essi stessi già optato per la sottomissione a Roma, pur provocando Gesù a dichiarare la sua opposizione ad essa in base alla Torah. Allora Gesù chiede loro di esprimere a parole l’immagine (eikon) di chi ed il titolo di chi fosse inciso sulla moneta. Nel fare ciò egli stava sia deliberatamente sottolineando la natura blasfema della iscrizione sulla moneta, che attribuiva divinità all’imperatore (“Tiberio Cesare, Augusto, figlio del divo Augusto”), sia ricordando ai suoi ascoltatori chi fossero davvero i portatori nel mondo della vera immagine di Dio, vale a dire il popolo stesso di Dio (cfr. Gn 1:27). Solo allora Gesù profferisce la sua dichiarazione fulminante sul rendere a Cesare quel che gli è dovuto e a Dio ciò che è suo.

Dato che Gesù aveva prima intenzionalmente messo in evidenza la natura idolatrica della coniazione di Cesare, non è pensabile che la sua dichiarazione finale fosse destinata ad essere un appoggio diretto dell’obbligo dei suoi ascoltatori di pagare le imposte, anche se viene spesso interpretata in questa maniera [14b]. Se le sue parole fossero state pari ad una affermazione inequivocabile del diritto di Roma di imporre tributi, sarebbe difficile comprendere come i suoi nemici potessero interpretarle come sedizione e denunciarlo a Pilato per aver “trovato quest'uomo che sovvertiva la nostra nazione [e] istigava a non pagare i tributi a Cesare” (Luca 23:2). Se non altro, l’affermazione di Gesù è più naturalmente presa come una dichiarazione audace di indipendenza dalla macchina generatrice di tributi di Roma. Ma Gesù non arriva a proibire esplicitamente il pagamento di tributi. Invece, richiama l’attenzione sul principio fondamentale di cui trattasi: Bisogna prima essere chiari su ciò che appartiene di diritto a Cesare e ciò che appartiene di diritto a Dio, poi decidere le specifiche del tributo. Naturalmente ogni giudeo conosceva il “Al SIGNORE appartiene la terra e tutto quel che è in essa” (Salmo 24:1), e che la loro lealtà politica era dovuta esclusivamente a Yahweh solo. Ciò significava che niente apparteneva di diritto a Cesare, meno di tutti la terra data da Dio ad Israele ed i suoi prodotti (cfr. Lv 25:23).

Ma questo non è quanto è successo. All’opposto, Gesù ed il suo movimento erano percepiti dalle autorità imperiali e coloniali come una bomba a orologeria politica che aveva bisogno urgente di essere disinnescata, e per ottime ragioni. Per capire perché, è importante riconoscere la metodologia Gesù usò per fare commenti politici e lavorare per il cambiamento sociale, dal momento che le opzioni politiche utilizzabili da Gesù erano molto diverse da quelle a nostra disposizione nelle società democratiche liberali.

Da questo, però, non segue che Gesù stesse incoraggiando un definitivo rifiuto al pagamento delle imposte da parte suoi compatrioti giudei, il quale sarebbe stato catastrofico. Invece, li stava invitando a riformulare il significato del pagamento che dovevano effettuare, trasformandolo da un simbolo di asservimento in un simbolo della resistenza. Poiché il Dio di Israele è il Signore di tutti, Cesare non poteva legittimamente rivendicare la proprietà di alcunchè – tranne che di una cosa, le spregevoli monete coniate in suo onore. Quindi, nel ritornare queste monete idolatriche al loro proprietario pagano, anche se in forma di imposte coercitive, gli ascoltatori di Gesù potevano convincersi di star simbolicamente liberando la terra di Dio dai simboli della dominazione imperiale eriaffermando la propria vocazione come veri portatori dell’immagine di Dio sulla terra [15b].


“Suggerire che Gesù fosse solo interessato ai
bisogni spirituali ed alla condotta personale
degli individui è un drastico impoverimento"


Per riassumere: una volta che abbiamo gettato via i paraocchi moderni che portiamo nel racconto evangelico, diventa chiaro che il messaggio di Gesù del nascente Regno di Dio ebbe notevoli implicazioni politiche. Il suo annuncio che il tanto atteso regno di Dio si stava ora affermando nel mondo e la sua conseguente convocazione delle persone a radunarsi intorno alla bandiera ebbero, come Wright osserva, «molto più in comune con la fondazione di un partito rivoluzionario che con quello che noi ora riteniamo essere “evangelizzazione” o “insegnamento etico”» .[16b] Suggerire che Gesù fosse solo interessato ai bisogni spirituali ed alla condotta personale degli individui è un drastico impoverimento del messaggio di Gesù ed uno smussamento della sua connotazione radicale. L’obiezione più fatale per questo familiare ritratto di Gesù è che non riesce assolutamente a soddisfare il criterio di crucifibilità. Come William Herzog osserva:

Se [Gesù] fosse stato il tipo di insegnante popolarmente ritratto nella chiesa nord-americana, un maestro di vita interiore che insegnava l’importanza della spiritualità e di un rapporto privato con Dio, i romani l'avrebbero sostenuto come parte del loro programma di pacificazione rurale. Questo era esattamente il tipo di religione che i Romani auspicavano avessero i contadini. Ogni convinzione che Egli incoraggiava ... il ritiro dal mondo della politica e dell’economia in un regno spirituale o interiore avrebbe incontrato l’approvazione ufficiale [17b]

Ma questo non è quanto accadde. All’opposto, Gesù ed il suo movimento erano percepiti dalle autorità imperiali e coloniali come una bomba a orologeria politica che aveva bisogno urgente di essere disinnescata, e per ottime ragioni. Per capire perché, è importante riconoscere la metodologia che Gesù usò per fare commenti politici e lavorare per il cambiamento sociale, dal momento che le opzioni politiche utilizzabili da Gesù erano molto diverse da quelle a nostra disposizione nelle società democratiche liberali.


Prof. Christopher Marshall 




- Note


[1a] Cfr: Atti 10:36; Rom 10:9-12; 1Cor 12:3; Fili 2:11; Ap 17:14
[2a] Cf. Alan Kreider, The Change of Conversion and the Origin of Christendom (Harrisburg: Trinity, 1999), esp. 33–42. 
[3a] Richard A. Horsley, Jesus and Empire: the Kingdom of God and the New World Disorder (Minneapolis: Fortress, 2003), 59–60; anche William R. Herzog, Jesus, Justice, and the Reign of God: A Ministry of Liberation (Louisville: Westminster John Knox, 2000), 90–108.
[4a] Cfr. Luca 19:39; Giovanni 11:50.
[5a] Vedi: Christopher D. Marshall, Faith as a Theme in Mark’s Narrative (Cambridge: Cambridge University Press, 1989), 179–82.
[6a] Su questo, si veda il lavoro seminale di Martin Hengel, The Charismatic Leader and his Followers (Edinburgh: T & T Clark, 1981).
[7a] Sulle implicazioni di questo per la teoria dei diritti umani, si veda il mio "Crowned with Glory and Honor: Human Rights in the Biblical Tradition" (Telford: Pandora, 2001).
[8a] N.T. Wright, Jesus and the Victory of God (London: SPCK, 1996), 172.

[1b]  Prendo in prestito questa utile analogia da Horsley, Jesus and Empire, 13.
[2b] Mt 13:57/Mr 6:4, cfr. Lc 4:24; Mt 8:28; Mt 16:14/Lc 9:19; Mt 21:11, 26; Mr 6:14–16/ Mt 14:1–2/Lc 9:7–9; Lc 7:16, 39–50; 13:33; Gi 1:21; 4:19; 6:14; 7:40, 52; Mr 14:65/Mt 26:68; Lc 22:64; 24:19; At 3:22; 7:37.
[3b] Mr 6:4/Mt 13:57; Lc 4:24/Tommaso 31; Gi 4:44; Lc 13:31-33. Gesù considerava anche Giovanni il Battista come un profeta: Lc 7:26/Mt11:9; cfr. Gi 1:22; Mr 11:27–33.
[4b] Per quella che è forse l’analisi del Giudizio nella predicazione di Gesù più approfondita e recente, si veda Marius Resier, Jesus and Judgment: The Eschatological Proclamation in its Jewish Context (Minneapolis: Fortress, 1997). Si veda anche Dale C. Allison, Resurrecting Jesus: The Earliest Christian Tradition and its Interpreters (New York: T & T Clark, 2005), 56–110.
[5b] Mr 15:1–38; Mt 27:11–32; Lc 23:1–46; Gi 18:28–19:38.
[6b]  I cinici sono i seguaci della scuola filosofica fondata da Antistene e Diogene di Sinope nel IV secolo a.C. I cinici professavano una vita randagia e autonoma, indifferente ai bisogni e alle passioni, fedeli solo al rigore morale. Dopo un periodo di declino, la scuola cinica ebbe una ripresa in concomitanza alla corruzione del potere imperiale di Roma: si fece appello allora alla libertà interiore e all’austerità dei costumi.
[7b] Horsley, Jesus and Empire, 7.
[8b] Si veda Mr 8: 27-30, cfr. 6: 14-16. A dire il vero, Gesù ritiene Giovanni Battista essere “più che un profeta” (Lc 7: 26 / Mt 11: 9). Ma, significativamente, Gesù solo una volta è definito come un profeta fuori dai vangeli (At 3:22). La sua importanza trascendeva categorie profetiche stabilite.
[9b] Sui differenti tipi di profeti nel primo secolo, si veda Wright, Jesus and Victory, 153–55; Herzog, Jesus Justice, 51–60. Si veda anche Morna D. Hooker, The Signs of a Prophet: The Prophetic Actions of Jesus (London: SCM, 1997) e David R. Kaylor, Jesus the Prophet: His Vision of the Kingdom on Earth (Louisville: Westminster John Knox, 1994).
[10b] Wright, Jesus and Victory, 203.
[11b] Sul passaggio del tributo, si veda Wright, Jesus and Victory, 502–07; Herzog, Jesus Justice, 219–32; Richard A. Horsley, Jesus and the Spiral of Violence: Popular Jewish Resistance in Roman Palestine (Minneapolis: Fortress, 1993), 307–17.
[12b] Realpolitik (in tedesco: “politica concreta” o “reale”) è un termine usato per descrivere le politiche basate su di una concreta pragmaticità, rifuggendo da ogni premessa ideologica o morale. Traducibile anche come pragmatismo politico nel contesto internazionale identifica, ad esempio, scelte basate più su questioni pratiche che su principi universali o etici.
[13b] Il paradosso del Comma 22 è un paradosso contenuto nel romanzo Catch 22 (letteralmente “Tranello 22” ma normalmente tradotto come “Comma 22”) di Joseph Heller. Il paradosso riguarda un’apparente possibilità di scelta in una regola o in una procedura, dove in realtà, per motivi logici nascosti o poco evidenti, non è possibile alcuna scelta ma vi è solo un’unica possibilità. Nella lingua inglese viene infatti comunemente citato con il significato di circolo vizioso. 
[14b] Contro si esprime Oscar Cullman, The State in the New Testament (London: SCM, 1957), 34–38; W.D. Davies, “Ethics in the New Testament”, Interpreters’ Dictionary of the Bible II:171.
[15b]  Così Herzog, Jesus Justice, 231–32.
[16b] Wright, Jesus and Victory, 301. Questa interpretazione si adatta bene con il modo in cui Walter Wink, e altri, comprendono la strategia sottostante le ingiunzioni di Gesù in Matteo 5:21-48. Per un breve resoconto, si veda Wink, The Powers That Be: Theology for a New Millennium (New York: Doubleday, 1998), esp. 98–111.
[17b] Citato da Nelson-Pallmeyer, Jesus Against Christianity: Reclaiming the Missing Jesus (Harrisburg: Trinity, 2001), 236–

Nessun commento: